LA FRANA: PENSIERI CHE ESONDANO IL CONSENTITO. Su alluvione in Romagna, mondo delle emergenze e normalità di guerra, solidarietà e altre questioni…

Ripubblichiamo qui un testo scritto a giugno di quest’anno, fattoci pervenire via internet, riguardo all’alluvione in Romagna del maggio scorso, e a proposito delle emergenze e del loro contraltare, e cioè la normalità fatta di guerra, devastazione e sfruttamento. Il testo riflette anche sulla questione della solidarietà e del mutuo appoggio, e su altre questioni. 

Qui il PDF del testo: LA FRANA
Di seguito il testo scritto.


LA FRANA: PENSIERI CHE ESONDANO IL CONSENTITO.
Su alluvione in Romagna, mondo delle emergenze e normalità di guerra, solidarietà e altre questioni…

Una o due bande di cinghilax scorrazzano nere e dense come macchie solari in un campo di grano acerbo, verde e zuppo d’acqua. La riva del fiume, sotto casa, s’è staccata di qualche metro rispetto a come me la ricordavo e ora c’è una bella spiaggetta di ciottoli che potrebbe ornarsi di un ombrellone colorato se fossimo più vicinix ad un luogo inondato dalla catastrofe turistica. Ma la strada è chiusa quasi sempre.

Durante la settimana la provinciale scorre a singhiozzo. Il week end no, non si lavora, così lx turistx possono passare e andare a spendere e fotografare. La riapre uno sbirro della polizia locale di non so quale località, l’accento non è “delle nostre parti”. Hanno mandato rinforzi, in termini di divise, da tutta Italia e in qualche caso anche da fuori i sacri confini e la Digos indigena fa le ronde “antisciacallaggio” con la sirena blu sul tettuccio.

Lo sbirro alla transenna conosce a mala pena i nomi dei luoghi che sorveglia: tre motociclisti con tute belle lustre si bloccano al suo cenno e chiedono informazioni su un passo montano che dista 30km o più. Lo sbirro risponde che è aperto e gli indica una strada e io so che l’indicazione che ha dato loro non li porterà da nessuna parte, ma sto zitto: turisti, motociclisti, uno c’ha un marsupio militare con un gagliardetto italiano. No, non ho proprio indicazioni migliori da dar loro che non siano “andatevene al diavolo!”.

La circolazione è lenta, incerta, e se vai con l’auto un po’ di metri devi fare il zig zag tra jersey di cemento e una macedonia di cartelli stradali che paiono appena sfornati e che non so cosa indichino. Si vede che lì non si passa anche con i soli occhi, l’asfalto non c’è più. Addirittura la mia intuitività, di certo non proverbiale, ha gioco facile.

La gente ai blocchi si stende sui cruscotti, guarda lo smartphone (che altro fare nel tempo non-utile della produzione o del consumo?) ascolta il commento di un vecchio che pontifica sul solito passato, il solito governo, il solito tempo…no, non è più il solito.

È “il cambiamento climatico”, lo dicono tuttx, dai, come non lo sai?! Sono 1 grado virgola 5 che ci ammazzeranno se non investiamo nelle rinnovabili e non fermiamo il fossile.

Un grado e mezzo di che? Ah non lo so!

Ma i fossili non erano quelli dei dinosauri? Sì, ma anche il carbone e la benza.

La strada scotta, il sole fa un colore sfibrato e lucente mentre passa dietro le nuvole che spaziano su un cielo che non mi era mai parso così imbizzarrito. Uno strano giugno. Non ci sono pesche nei negozi e qui “da noi” ce n’è sempre da buttar via, che infatti quelle che mangiamo tra amicx e compagnx sono sempre dello stesso fornitore: cassonetto della Coop.

La gente del paese è tornata alla televisione, quellx che hanno la terra delle frane vicino casa stanno un pò più in giardino o sulla strada ho notato: forse per scaramanzia, forse perché è caldo, forse per guardarsi attorno, forse per non so ché.

I supermercati sono stati svuotati in poche ore i primi giorni dell’“Emergenza”, come era successo per il nevone del 2011, come per il Covid, come per la prossima guerra tra Cina e NATO che annunceranno fra qualche mese, o non l’annunceranno affatto, la faranno piovere dal cielo e basta, come si conviene ad un’emergenza.

A Conselice c’è un fiume di pesci morti, l’acqua è nera e bluastra, con quelle rifrangenze spettrali e quasi affascinanti che fanno gli scarichi di petrolio sulle pozzanghere ai bordi delle strade delle metropoli.

Nel ravennate hanno spaccato artificialmente gli argini in punti di campagna per non fare arrivare l’acqua a Ravenna città, che è un patrimonio culturale: ci sono gli imperatori e imperatrici del nostro amato impero. Vabbé quelli bizantini, che erano un po’ più effeminati del buon Cesare che era già un po’ della Lega, ma fa niente, ce li teniamo uguale: una caterva di morti ce l’avranno anche loro nel curriculum.

E ci sono gli imperi di pipeline e raffinerie dell’ENI e la generosa CMC che tra un cantiere in Val Susa e una diga in Iraq divide gli utili sotto forma di brustoline e ricariche della Tim ax socx.

È proprio un bel posto il ravennate, poi adesso che nel decreto alluvione c’hanno infilato le misure per l’attuazione d’urgenza di impianti energetici, come le navi-rigassificatore, avremo l’ammiraglia della SNAM ormeggiata al porto attivissima e italianissima. Per rifarci gli occhi. E i polmoni. E tutto il resto.

Adesso i super mercati sono tornati quelli di sempre, dappertutto, ma le ciliegie stanno 8 o 10 euro al chilo e non sono nemmeno buone.

Tanta gente che ha spalato le cantine se ne va al mare a fare il bagno nella melma diluita che hanno rovesciato in container, camion dei pompieri, cassonetti, tombini sfiniti. Ironia della sorte, o forse non c’entra la sorte e non è nemmeno tanto spiritoso, il divieto di balneazione delle coste romagnole l’hanno ritirato la notte prima del ponte del 2 giugno, quando formalmente si apre la stagione turistica. Solo in un lido resta il divieto, il più sfigato, che non mi ricordo come si chiama ed è chiaro, no, che l’acqua del mare se ne starà buona buonina entro i limiti disposti dalla legge del confine di pertinenza.

Ma l’Escherichia Coli non è il Covid. Tutto quello che non è Covid non è poi così pericoloso.

Le vallate sono piene di cicatrici: le frane hanno davvero cambiato questi posti. Dicono i giornali che se ne sono contate 958. Io non comprendo bene come abbiano fatto a contarle, ma i giornali hanno numeri per tutto e per tuttx.

Ma non sono solo le grandi masse di terra e sassi ad impressionare (anche se non posso negare che abbiamo sempre un po’ tuttx il fascino per il grande, il mega, il super, l’iper) sono le piccole variazioni: la fila di pioppi che è scesa più verso la strada di non so quanto, ma è scesa, ce ne accorgiamo tuttx, perché li vedi ogni giorno o quasi quei grandi pioppi, che con la giusta alternanza di pioggia e di sole fanno i funghi per la pasta.

Alcuni rigagnoli d’acqua che lacrimano dalle pareti argillose fanno una rifrazione d’argento e non se la smettono di venir giù, che le ruspe scavano e scavano, ma tanto ogni mattina sei da capo. Perché continua a piovere, perché è umido, perché fa meno sole del solito, perché da una ruspa non può venir niente di buono.

Un signorone di ministro ha detto che ci vorranno 9 anni per la ricostruzione totale. Bonaccini dice che i danni sono di circa 10 miliardi di euro. Poi 13. Il governo promette ristori al 100% e stanzia 2,2 miliardi, no, 1,2 scusate. Arrivano 300 milioni per ora. Poi Musumeci, un altro ministrone, dice che “il governo non è un bancomat” e tutti i sindaci romagnoli ne escono indignatissimi.

Cifre da capogiro. Cifre da guerra di un piccolo paese del terzo mondo, ma questo è il primo, primissimo, bianco, bianchissimo.

La gente vuole tornare alla normalità.

Come dopo l’invasione dex albanesi, come dopo l’11 settembre, come dopo l’arrivo dell’euro, come dopo il millenium bug, come dopo un sacco di dopo che adesso pare sia un prima-e-un-dopo solo dopo il Covid, ma è tutta una vita che si va di prima-e-dopo emergenza mi pare.

Terremoti, inondazioni, incendi forestali: la natura impazzisce.

La nostra vita normale è da pazzx.

No, non è la “Natura” che impazzisce; a me non piace sclerotizzare gli elementi del vivente come fossero lx internatx di una clinica per lobotomie, per me il vivente è in rivolta. E manco tanto. Potrebbe fare molto di più.

Vi ricordate quel vulcano islandese che, stufo marcio, aveva sbuffato un pezzo di cielo di caligine e si è bloccato il traffico aereo per settimane intere su tutta l’Europa del nord? Io me lo ricordo, e con un sorriso.

Da mattx, no?! Solo fumo. Fumo contro la Megamacchina e tuttx giù per terra.

Non siamo pazzx o normalx, siamo consumatorx alienatx che non riescono più a discernere quale sia un limite accettabile di azioni imposte o apparentemente imposte per denominare “vita” un continuum di ore su un quadrante, una valanga di oggetti-simbolo che inchiodano la nostra esistenza a un comodino, a un un armadio, a una dispensa o a uno schermo. Sempre di più lo schermo.

Non essere assurdx! Non essere cinicx, sono morte delle persone, altre hanno perso tutto…

I soliti giornali dicono 17 morti e nel punto di massima 36mila sfollatx: cifre che, se non fossero cifre, ma riuscissimo a tramutarle in vite, in storie, in affetti, in paure, in dolore; se potessimo praticare l’empatia le tradurremmo in sangue che ribolle, e se ci azzardassimo ad aggiungere un pizzico di critica sapremmo anche che non sono morti accidentali, sfollatx eccezionalx, ma ricadute del capitalismo. Morti e tragedie del capitalismo, organizzato e gestito dai suoi artefici e manovali.

Inoltre mi spiace ma devo dirlo, scriverlo, gettarlo: le persone muoiono sempre, in continuazione, ma il punto è CHI muore, da che parte delle frontiere sta, che colore veste la sua pelle nell’economia sanguinaria di questo sistema di cose.

La gente non è morta di pioggia, è morta di asfalto, di palazzi, di bilanci gonfiati e di manutenzione non fatta, la gente è morta (generalizzando alle condizioni socio-economiche di questa regione nella regione, la Romagna) dopo aver vissuto un po’ benino, con tre spicci in tasca, una casa, delle vacanze, dei libri da leggere, una sfilza di cene fuori. Magari anche no. Generalizzo. In un moto viscerale e politicamente scorretto.

Ma ogni analisi che prenda in considerazione una società o parti di essa mi pare si muova su binari di approssimazione e generalizzazione, perché non hanno tempo (né interesse) la statistica o l’antropologia per curarsi degli individui e della loro complessità.

E perciò mi viene da dire, con una punta di arroganza di chi crede di conoscere bene ciò di cui sta parlando, che in Romagna la popolazione regolare (perciò escluse tutte le persone migranti schiavizzate dall’agro-business, chi vive senza documenti, chi occupa, chi sta in strada etc…) è una popolazione borghese di classe media.

Insomma, moltissime persone hanno le risorse economiche e un certo “capitale relazionale” per rialzarsi.

Perciò non sono degne di essere aiutate dax volontarx?!

No, non dico questo. Ma credo che ci si dovrebbe organizzare per portare aiuto e solidarietà in primis a chi è esclusx dai privilegi di cui sopra. E sono altrettanto certx che queste persone non manchino affatto (perché per fare la ricchezza ci vuole il suo contraltare di sfruttamento e conseguente povertà) solo che sono invisibilizzate e, spesso, messe in condizione di non poter reclamare “ristori” o indennizzi, né i tanto cari diritti. Esempio tra tutti chi vive in affitto irregolare, che di certo non può reclamare nulla né dal proprio padrone né dalle istituzioni, che lx criminalizzerebbero.

Le morti non sono tutte uguali.

Solo da Gennaio a Marzo 2023, nella parte di mondo denominata “stato dell’Ecuador” ci sono state 60 morti accertate e 127 persone “desaparecidas” per episodi alluvionali e conseguenti frane e non mi risulta che nessun elicottero, con a bordo una vampira europea e una fascista italiota, abbiano sorvolato i cieli di Quito biascicando un “tèn bota” che alle mie orecchie suona come il bacio lessicale di una Giuda dal bombardiere facile1.

E questo solo per ciò che attiene ad episodi analoghi a quello che ha colpito la Romagna, ma se buttassimo nel conto le stragi in mare (l’ultima e più efferata quella in Grecia, a Pylos, dove si stimano circa 600 mortx affogatx), quelle alle frontiere di terra, sul lavoro, nelle guerre dell’Occidente, ecco che la “catastrofe” del maggio romagnolo mi pare fortemente ridimensionata.

E se usciamo dai confini europei e ci inoltriamo nel continente africano o in oriente (un oriente calcolato sui planisferi tutti calibrati su un “centro” europeo) martoriati da epidemie, guerre, massacri, stupri e rapimenti di massa, desertificazione e disastri ambientali che al massimo guadagnano sette righe su Internazionale, per davvero l’alluvione mi pare un “contrattempo del capitalismo” tra mille.

Ma i morti bianchi pesano come bombe atomiche, i morti di tutti-quei-colori-non-bianchi sono il bollettino in costante aggiornamento dello spauracchio quotidiano che noi occidentali sorbiamo con l’espresso la mattina, per farci sentire al caldo, teporosx, avvoltx nella nostra merda. Che magari fosse merda! Da lì nascono i fior, no Faber?

E nemmeno tutte le persone bianche pesano in egual maniera sulla bilancia, perché le morti del “centro-nord” e le devastazioni al “centro-nord” sono molto più morti e devastazioni che al Sud, nelle colonie interne dello Stato italiano. E anche la ricostruzione, c’è da giurarci, avrà una marcia in più, visto che siamo al “centro-nord”.

Un altro tema che segna un divario colonialista tra Nord e Sud (d’Italia, del mondo) è la questione rifiuti: in queste settimane vedendo cataste, montagne, colline di rottami e cianfrusaglie di ogni tipo (ossia anche ogni tipo di nocività) mi chiedevo, dove andranno a finire tutte ste cose?!

Ecco, non stupirebbe affatto che la risposta fosse, come già in tempi “normali”, che le istituzioni scaricassero questa monnezza al Sud Italia, oppure in un Sud un po’ più distante, chissà… Africa, Medio Oriente, India?!

Mi auguro che non mi si prenda per unx insensibile pezzo di metallo senza cuore, è solo che mi fa infuriare l’ipocrisia di chi, dal suo ruolo di potere, permette (quando non organizza) massacri quotidianamente senza batter ciglio, e poi giura e spergiura commozione ed aiuti per portar a casa un tornaconto elettorale. E mi fanno un po’ arrabbiare coloro che non riescono a rendersi conto di quanto la nostra società “del benessere” grondi sangue da tutti i pori e si accorga che esiste il disagio di vivere solo quando gli frana il giardino o alla TV dicono che devi stare muratx in casa se no muori se respiri lo starnuto dellx tux vicinx.

La gente vuole tornare alla normalità.

È stato bello farsi i selfie infangatx, dare una mano, sentirsi utili (anche onestamente a cuore aperto, non lo nego assolutamente)… ma un pochino, adesso basta. Per di più inizia l’estate, che è sacra, perché ci sono due settimane di ferie da scontare.

Quattordici giorni, sedici se becco un rimasuglio di ferie inevase, e così rigenero la ghiandola della normalità e mi sento a posto, cioè, no, non a posto, ma posso andare avanti.

Non essere cinicx, me lo dico anch’io.

La solidarietà e la spontaneità non delegata agli apparati di Stato che si sono espresse sono il frutto più genuino che questa possibilità fangosa ci abbia regalato e c’è chi ne ha fatto tesoro, è certo. Ed è a maggior ragione che mi scaglio contro il ritorno alla normalità, perché significherà esattamente la negazione di tutto quello spirito di mutuo aiuto, di condivisione di tempo sottratto alla campanella o al cartellino. La normalità è l’antitesi di quella spinta alla ripresa di un’autonomia che non sappiamo più come riconciliare con il nostro immaginario, perché non l’abbiamo mai sperimentata, dalla culla alla bara, passando per il tinello.

Dopo, quando torna la normalità, torna lo Stato. Finita l’emergenza, dove tutto è gambe all’aria, arrivano militari, specialisti, divise, soccorritori esperti, tempi e circolazione regolamentate, leggi, decreti, orari, zone colorate, limiti, silenzio. Nel rumore delle ruspe che scavano non si capisce cosa, per buttarlo non si sa dove.

Mi ricordo da bimbx che mi insegnavano che le tracimazioni del Nilo avevano fatto la grandezza di quel popò di popolo dorato che erano gli Egizi (o meglio dei faraoni, lx schiavx se la passavano maluccio). Mi ricordo ancora il nome di quella melma preziosa dalle pagine del libro: limo. Quella alchimia di terra e acqua che rinvigoriva la terra stessa, che faceva sorgere il verde dei campi.

Quella che si è riversata fuori e dentro e dappertutto non è il limo dei libri, ma una miscela di nocività melmose, un puzzo da voltastomaco, una bara galleggiante per chissà quante centinaia di migliaia di animali non umani travolti e intossicati a morte.

La normalità è scendere a patti con quella fanghiglia di oli sintetici, gas di scarico, pesticidi, veleni, petroli raffinati di ogni genere e tipo. La resilienza. Questa è la parola magica della normalità. Adattarsi al capitalismo perché il capitalismo non può scendere a patti col vivente, in quanto sua nemesi. La resilienza è portarci a credere che quello del McDonald’s sia cibo, che le creme solari siano idrosolubili e che la pappa Bio del NaturaSì sia qualcosa che ha a che fare davvero con la terra e i suoi microuniversi.

Questa è la normalità. Non più cinghialx nerissimx nel grano acerbo, non più pause, non più intoppi, ma tir che sfrecciano sulla regione col più alto tasso di cementificazione in prossimità di “elementi idrici permanenti”, ossia fiumi.

La normalità è chiamare un fiume un “elemento idrico permanente” ed aver così annichilito col linguaggio della tecnica il prodigio della vita stessa capace di fluire, nel marasma incontrollabile che porta al mare, come le vene di una formidabile essenza viva.

Non essere cinicx, la gente ha perso tutto, ah, sì, questa me l’ero dimenticata di essermela detta…

Lx indigenx del Pacifico ad ogni alta marea abbandonano le case che hanno costruito con le loro braccia, con i loro errori e con la loro miseria e si ritirano verso la selva, dove ci sono delle lomitas (collinette) al riparo delle onde oceaniche. Quando si ritira il mare tornano loro. E la casa? E quello che c’era dentro? Una casa può anche essere solo una tana, non necessariamente un sarcofago per le nostre bigiotterie esistenziali. Non vorrei semplificare orrendamente il concetto, ma lo sto facendo, perché un pizzico di tremore alla pancia mi viene se penso che la frase “ha perso tutto” si pronuncia per individui umani che hanno incastonato il concetto di “tutto” in cose, oggetti, averi che si hanno. Cose che si usano, ma che non valutiamo per la loro utilità, per il loro “valore d’uso” (mamma perdonami per aver citato Marx!). Simulacri che ci donano uno “status” socialmente spendibile, che danno sostanza al sopravvivere. Che è l’unica forma che conosciamo per stare a questo mondo. O per lo meno che io conosca. Non l’utilità di un cucchiaio perché per il brodo mi fa più comodo di una forchetta, ma l’indispensabilità di un ninnolo perché vi ho impresso anni di esistenza, ricordi, vi ho proiettato emozioni. Quelle emozioni che il capitalismo attraverso il suo spettacolo quotidiano mi ha insegnato a proiettarvi. Oggetti. Siamo consumatorx alienatx perché abbiamo compresso il vivere nell’avere (banalità di base da nostalgicx no-global) ma si vede proprio bene che quelle cantine allagate hanno allagato la vita stessa della gente. Perché non abbiamo più una vita vissuta, ma una vita immagazzinata.

Non essere stronzx! Scrivi ‘ste belle fregnacce dal tuo computerino sulla tua scrivania e c’hai tutto ancora te, non hai mica la casa alluvionata!

No, è vero, è certo. La voce del privilegio. Non nego le mie contraddizioni, non voglio fare lx maestrx di vita dall’alto dello scranno più asciutto e incolume, ma questi pensieri mi divorano dentro, mi attorcigliano le budella ogni volta che vedo lo scaffale pieno o che sento la pulsione ad arraffare qualcosa che dia un tocco di non so ché alla mia giornata vuota. Ogni volta che vedo le mura stipate di cose mie o la gente in fila per accaparrarsi altre cose che poi saranno tutte loro, e vedo i volti che non riconosco, facce perdute, occhi senza scintilla…

Non mi esce ben scritto questo scritto perché sono scossx, sono arrabbiatx, frastornatx ma vorrei poter chiarire, se ce ne fosse bisogno, che non giudico nessunx che si sbatte come può per sfangarla in questa sopravvivenza maledetta nel capitalismo, però vorrei anche poter dire che per me la vita è Altrove.

Non penso che dovrei tenere per me questi mostri perché “non ho perso tutto”; perché il mio spirito più vorace è tutto lì, nell’immaginare e dire e scrivere e sognare e cercare di innescare un nuovo mondo e una nuova forma di vivere, e allora sì che ci penso, sì che mi faccio trascinare dall’alluvione dei miei pensieri più critici, perché quello che vedo attorno è quello che vivo ogni giorno.

Nemmeno sto sotto le bombe della NATO in Ucraina o quelle russe o di chi sa quale altro paese non-belligerante-ma-vendente-armi, allora non dovrei poter gridare o scrivere pacatamente che la guerra è una catastrofe maledetta che dobbiamo rifiutare, disertare, sabotare con ogni mezzo pratico e di immaginario, qualunque sia il pretesto che gli Stati adottino per imbonircela?

Tornare alla normalità è anche tornare ad avere i giornali pieni di guerra, pieni di mortx ammazzatx, pieni di femminicidi, di stupri presunti (perché per lo stupratore c’è sempre il più ligio garantismo, come per le guardie), pieni di torture presunte delle caserme di Piacenza o delle questure di Verona (wow, se sono arrivati fino a buttarle su Repubblica.it quanto erano marcite quelle mele?!); una normalità di scuola e di benzodiazepine, di sigarette al mentolo e di sigarette elettroniche, di biciclette elettroniche, di pattini elettrici di macchine elettriche di stampanti 3D di visori elettronici e mi fanno male le mani al solo pensare quante altre volte potrei dover battere la sequenza di tasti che compone la parola e l e t t r o n i c o.

La normalità è l’Ilva di Taranto che da decenni vomita catastrofi sotto forma di polveri cancerogene, ricatti lavorativi, ghigliottine salariali, disgregazione del tessuto comunitario, annichilimento di ogni possibilità di scelta, come detto brillantemente da un operaio intervistato ormai anni or sono “o crepare di fame o crepare di tumore”. Non fa una piega.

La ripresa, la ripartenza, lo scatto per la normalità è la seconda Ilva che vogliono costruire nella laguna di Grado, in Friuli, distruggendo tutto, con buona pace delle “aree protette”, per far spazio a una catacomba di acciaio metà della dita Danieli, italianissima e nordistissima e metà del magnate ucraino Rinat Achmetov che dopo aver perduto la sua cara Azovstal, dove stavano trincerati gli eroici nazi che ci hanno bombardato di selfie patriottici, vuole portare il progresso metallurgico sull’italico suolo alleato.

Mi vengono i brividi ogni volta che leggo su un giornale che ci sono state delle “bombe d’acqua” e sento poi la gente, le persone, lx conoscenti, che ripetono; come mi venivano i brividi a sentire parlare di lockdown come fosse il più ovvio dei concetti. Non una parola da strateghi della guerra, da generali, da camere di comando in mimetica, ma una parola da bar, una parola per il consumo e l’assimilazione di massa del concetto. La performatività del linguaggio è subdola e affascinante.

Le bombe d’acqua sarebbero la pioggia fortissima. Ma non è un caso. Non esiste il caso nel linguaggio della tecnica, perché è il linguaggio delle macchine e le macchine non concepiscono (e non sopportano) il caos. E adesso che c’è l’Intelligenza Artificiale a scrivere libri e riviste la frase non suona nemmeno più come una salace metafora, ma è LETTERALMENTE il linguaggio delle macchine che si sta sostituendo a quello umano.

La pioggia ci bombarda, la natura ci fa la guerra: quale più maestoso stravolgimento del reale per occultare che è il capitalismo in armi (le armi della tecnologia, che è civico-militare, così come le città sono caserme) che muove una guerra di oppressione e tentativo di sterminio a tutto ciò che vive. Me compresx. Noi compresx.

I brividi non mi passano nemmeno quando riesce fuori il sole, che è un sole fatto anche di gesti amici, di solidarietà vera, con coscienza e critica, con sorrisi e bestemmie, una solidarietà che non faccio coincidere col mutuo appoggio. Perché nel mondo dove Telethon sostituisce il vocabolo nella Treccani, solidarietà è un concetto anche più scivoloso delle scalinate infangate.

Dare solidarietà a un compagno anarchico rinchiuso in 41bis per essere un individuo che con le gesta e le idee attenta all’ordine di cose esistenti è stato molto più facile per me, che discernere la solidarietà per me dignitosa e valevole di sforzi di questa alluvione. Anche nei pensieri, nelle intenzioni.

La radicalità della vita di Alfredo lo rendeva felicemente impresentabile a una foltissima schiera di persone che possono confondersi con la solidarietà. Difendere e cercare di portare avanti le idee e le pratiche da lui espresse non era cosa che chiunque potesse fare a cuor leggero, visto il curriculum. Ci dovevi riflettere, farti due conti con te stessx, capire cosa pensavi e provavi nei suoi confronti e nei confronti della sua lotta che è la lotta di tanta gente “complice e solidale” in tutto il globo, come si è visto, simile per attitudine, linguaggio, tensioni.

Ma col concittadinx allagatx o col conterranex evacuatx, che non ti è dato di conoscere se non per l’apparente similitudine biologica e forse, azzardatamente, culturale (qui intesa in termini di cultura di una stessa terra/zona di appartenenza per nascita o scelta), come comportarsi da guastafeste, da anarchicx, da cinicx propugnatori ed elogiatrici della distruzione dello stato di cose presenti?

Solidarizzerò con la “causa” di un imprenditore (anche piccolo, piccolissimo) che rivuole indietro il suo lavoro, la sua normalità, la sua impresa? Solidarizzerò coi gesti e con le intenzioni con chi rivuole indietro la sua normalità? No.

Però nemmeno me ne starò fermx a guardare un individuo, mio simile per quanto possa sforzarmi di non farmi prendere la mano dall’umanesimo tout court, in uno stato di disgrazia più che palese.

Fino a che non ho modo di conoscere unx sconosciutx vale per me il dubbio. E per quanto attiene alla mia indole, mi viene da “dare una mano”, non fosse altro perché un mondo nel quale questa fosse la “norma” sarebbe meno abbrutente e meno difficile.

Visto che siamo nella società delle cose e dell’apparenza il metodo più immediato per conoscere unx sconosciutx per me è giudicare la sua abitazione, la sua automobile, il modo in cui si rivolge alle persone intorno meno privilegiatx di lxi etc…

Per me il mutuo appoggio è “ci si aiuta, perché così si esce dai guai insieme, tra chi non ha santi in paradiso”.

Per me la solidarietà è “condivido scelte e tensioni di un’altra persona e mi ci rispecchio, sono le mie, o le faccio mie, e nella disgrazia in cui lxi cade io cerco di portare avanti la sua vita che è la mia vita, o parti di essa, per provare ad uscire assieme da quella disgrazia”.

Perché se mi sento complice e solidale con un’altra persona ogni calamità – quasi mai naturale – che lx attanaglia o lx costringe o lx affligge, affligge anche me, perché la solidarietà affratella e assorella.

Il mutuo appoggio può lasciare intatte delle distanze anche grandi per me (non tanto da divenire linee di demarcazione di un sentimento di disamistade inimicizia) e attiene alla sfera dell’arrangiarsi, del togliersi dai guai.

La solidarietà la sento più come un progetto che connette le persone e le loro storie, come uno dei principi fondanti dell’organizzarsi e vivere insieme.

Entrambi, per me, si muovono su linee di demarcazione etiche e di sensibilità, però la solidarietà la inserisco in una sfera più passionale e forse, invece, il mutuo aiuto in una più utilitaristica.

Fermo restando le discriminanti che sento mie, e ognunx c’ha le sue, credo che mi sento di “aiutare” unx perfettx sconosicutx atterritx per l’alluvione, fino a che non intervengano dei presupposti che mi fanno dire di lxi “ecco, no, questo me lx rende inaccettabile”, ma non sentirò il trasporto e la costruzione di progettualità comune che sento per unx sodale.

Tutto questo per definire la mia dicotomia, non per delineare i tratti presuntivamente oggettivi di queste due pratiche. Però sentivo che era importante spiegare cosa intendessi per solidarietà, parola oramai spendibile da un pubblico davvero ampissimo e trasversale, che ne rende scivolosissimo l’utilizzo e la messa in pratica.

Mi atterrisce anche la retorica de “la Romagna ce la farà!”, infarcita di selfie e video sbrodolanti sciovinismo produttivista e campanilismo al suon di Romagna mia cantato dai gommoni in transito tra le vie allagate.

Perché se da un lato trovo assolutamente dignitoso e motivante l’incoraggiarsi vicendevolmente per uscire da una situazione di crisi, dall’altro lato la leggerezza e l’acriticità con la quale ci si sente “tutti nella stessa barca” (come ai tempi degli inni a squarciagola dai terrazzi, nell’ora d’aria del Covid) è allarmante per me.

La Romagna chi?! Operaix e industrialx, padronx e servitricx, affituarx in nero e palazzinarx, raccoglitricx razzializzatx senza contratto e possidenti terrieri? Tuttx unitx nello sforzo comune di “risollevarsi”?!

Chi non aveva nulla, o poco, si ritroverà con le sue proverbiali pezze e chi già godeva i vigliacchi privilegi che questo sistema di cose garantisce loro avrà sempre di più e sempre meglio, a scapito dex primx.

È il capitalismo, è la democrazia, è il patriarcato.

No, non siamo tuttx sulla stessa barca, mannaggiaccristo!

La Romagna è storicamente una zona di “gente che lavora”. Innegabile. Ma se dalle pagine di una splendida e romantica trilogia di Evangelisti queste vicende della socialista e laboriosa Romagna dei tempi che furono mi fanno un effetto coinvolgente, dall’altro non posso dimenticarmi che il lavoro salariato è il male sociale assoluto (per dirlo con le parole di mio padre) e la sua apologia un tragico lascito della cultura profondamente comunista di queste terre. Oggi ovviamente non ci sono più lx comunistx nemmeno alla festa de L’Unità di Bagnacavallo, ma il valore etico, sociale, sovrannaturale del lavoro e del “guadagnarsi il pane” resta ad ammorbare tutte le relazioni sociali.

Inoltre, secondo me, questa glorificazione del popolo lavoratore si inserisce, nell’avvelenata retorica nazional-popolare di oggi, in una nemmeno troppo velata stoccata ax “fannullonx”, quellx che percepiscono il reddito di cittadinanza e persone migranti o irregolari a vario titolo che non vantano nel proprio DNA il fanatismo stackanovista.

Il lavoro salariato è una merda. È il male.

Ed ecco che mi sale il timore che questa auto-celebrazione dell’iperproduttivismo sfoci in una sorta di colpevolizzazione di chi, al Sud, si è trovatx flagellatx negli anni da terremoti, inondazioni, incendi, e sta ancora là, nei container o con le strade dissestate, perché “non si è rimboccatx sufficientemente le maniche”.

Chissà, forse voglio vedere il negativo sempre, sarò ben contentx di sbagliarmi, ma la cultura è diventata troppo razzista e neocoloniale perché non si sia annidata anche tra le genti non abbienti di Romagna, che un tempo, tanto tempo fa, sono state di certo un fulgido esempio di “solidarietà proletaria e rivoluzionaria”, ma oggi non sono nemmeno l’ombra sbiadita di quelle generazioni. Non per mitizzarle tout court! Solo per quanto riguarda gli slanci rivoluzionari e ribelli che hanno contraddistinto tante persone, tra metà Ottocento e secondo dopoguerra, in questa parte di Stato italiano.

Non vorrei essere cinicx. Non mi sento bene a scrivere queste parole, perché so che possono ferire, so che c’è chi s’imbizzarrirà di protesta, di indignazione. È la pancia. Il mio corpo, che non riesco a definire altrimenti che come un “qualcosa” disgiunto dal cervello, come si conviene allx più schiettx positivista, è sempre in anticipo sui miei pensieri.

Mi sento confusx e accigliatx, mi sento rabbiosx e sconfortatx, perché l’idea di fondo che muove questo scritto è la prospettiva, la possibilità realizzabile, di un’esistenza senza Stato. Senza dominio. Per me, il sentiero, l’anarchia.

E quindi senza la macchina dello Stato, senza la sua immagine, senza il suo spettacolo, la sua quasi-onnipresenza quasi rassicurante, com’è rassicurante l’esistenza di un inferno di fiamme che ti scotta la pelle in una tremenda allucinazione per la quale, quel dolore, quelle ustioni, rappresentano la prova che esisti davvero. Che ci sei.

Come sarebbe un mondo senza Stato, un mondo di individui autonomi, infine, liberi?

E come arrivare a questo mondo, come realizzarlo, come distruggere questo abominio che è il Sistema?

La sintesi estrema di questo testo vuole essere che nell’apparente tragedia (perché sì, è una bella botta, non per tuttx uguale, ma una percentuale sostanziosa della “percezione della tragedia” la fanno i mezzi di rappresentazione di massa) si celano anfratti di possibilità.

Laddove retrocede lo Stato e il suo apparato possono fiorire la libertà e l’autodeterminazione, e il bello, la cosa più bella socialmente parlando degli ultimi anni, è che effettivamente questo accade, spontaneamente, come accade a un seme di germinare se lo bagni e lo irrori di sole.

Ma fa paura.

Una pausa dalla normalità, sì, anche un po’ lunghetta, ma poi?

La mia civiltà non anela la libertà, ma la sicurezza, o per lo meno è quello che tuttx ripetono e finiscono per crederci mi pare.

Io la desidero come si desidera ciò che non si è mai conosciuto, ciò che è ignoto e delizioso, ma anch’io ho paura, tanta paura di tante cose, se penso alla fine di questo mondo, che pure odio con ogni fibra del mio corpicino.

Tremo all’idea di ciò che sarebbe un ribaltamento dello stato di cose vigenti in questo sistema sociale, con queste coordinate etico-morali-comportamentali. Gli individui quasi robotizzati mi fanno paura sotto l’egida dello Stato e non cessano di farmene nell’ipotesi di un crollo di quest’ultima.

D’altro lato però nemmeno mi arrendo al feroce dogma hobbesiano: voglio restare apertx quanto più mi riesce alla possibilità, all’imprevedibile. E dopo tutto, come si diceva, spontaneamente c’è stato un moto di massa (composto per la stragrande maggioranza da persone molto giovani) teso al mutuo aiuto e non all’arrivismo.

Non voglio che la paura soffochi lo slancio, la vitalità espressa in tante azioni di rivolta, di recupero di autonomia, di esproprio di ciò che ci è tolto, di sabotaggio della macchina, di tentativi di accordarsi tra simili nell’impresa della libertà: altalena funesta e grandiosa, vertiginosa, amena, ignota.

Cerco di ripeterlo con pacatezza, con serena sincerità: non sono parole di accusa o di giudizio verso nessunx che, con buon cuore, si sia spesx come meglio ha creduto in questi frangenti. Sono parole che immagino per darsi un pretesto per fermarsi, adesso che la fase acuta e più spettacolarizzata (perciò anche più confusa) dell’emergenza è finita, e riflettere, criticarsi, ragionare, scornarsi.

Se scrivo di getto, se ho dato allo stomaco e ai polmoni la priorità piuttosto che all’ingranaggio cerebrale è perché credo che non abbiamo bisogno, in momenti dove si riaffacciano la morte, la sensatezza o meno della vita, la concezione di noi stessx e il senso delle cose, non abbiamo bisogno dicevo di altre analisi o vociferazioni della razionalità che ci spieghino, ma di atti e vibrazioni che ci facciano sentire. O per lo meno io avverto chiara questa esigenza.

Perché senza valutazioni d’impatto ambientale di sorta un individuo ancora almeno un poco legato alla Terra lo sente che quel fango è puro veleno, che il cemento è genocidio, che il fiume deve essere selvaggio e che questa esistenza alla quale stiamo divenendo resilienti è una tortura.

Il capitalismo, che alcunx sostengono sia morente, ha inaugurato, anche per il Primo mondo, la stagione delle emergenze (in altre parti del mondo, nelle colonie del progresso, questa è cosa fatta, dall’affermazione stessa del capitalismo) e di conseguenza da suox nemicx giuratx credo sia opportuno che ci facciamo due conti a riguardo.

Stagione inaugurata come si inaugurano oggi le cose da parte del potere: avverandole. Con un piccolo occhiello introduttivo fatto di ricerche e di articoli di giornale che nessux o pochissimx leggono e che poi, a cose fatte, srotola capitolo dopo capitolo la sua trama già bella confezionata e progettata da chi di dovere.

Le emergenze continue (l’abbiamo visto bene all’Aquila col terremoto) sono una ghiotta occasione per chi fa profitti e non smetteranno di esserlo. L’assenza dello Stato, incarnato in questi casi nelle sue truppe di soccorso, è per chi si batte per la libertà un campo di messa in atto di quell’autonomia negata quotidianamente dal sistema tecnico. Ma anche per lo Stato sono dei banchi di prova. Ad ogni occasione si corregge, si adatta, si evolve. E più lo Stato e la tecnica al potere avanzano, più noi, un “noi” da intendersi come coloro che non desiderano questa ricchezza e questa “vita” (che sento doveroso mettere tra tante virgolette) perdiamo forza e terreno.

Per questo non possiamo attendere, credo, che scossone dopo scossone lo Stato si sgretoli di emergenze, perché la sua priorità del momento pare proprio essere il perfezionamento delle strategie repressive e contenitive di queste emergenze oramai permanenti.

La resilienza è l’educare lx servx a sopravvivere quel tanto che basta per continuare a servire.

La quantità e l’efferatezza delle catastrofi di questo mondo mettono i brividi, bloccano gli arti, immobilizzano il cuore. Se potessimo davvero sentire tutto il dolore che fluisce dalle vene aperte di questa Terra martoriata e di tanti suoi abitanti, sarebbe un incubo. Un incubo interminabile e tremendo, e sarei probabilmente dispostx a tutto pur di interromperlo. Compresa la mia morte o la morte di qualcun altrx ritenutx responsabile.

Ma fortunatamente non sentiamo tutto questo. Fortunatamente riusciamo a vivere nell’inferno, agghindandolo anche, di ninnoli e passatempi.

Alcunx (sempre meno in questo lato del mondo) avvertono però che questa non è vita e che quel “dispostx a tutto” è forse davvero l’unica scelta sensata in un esistente che ha sottratto e contraffatto il significato stesso delle parole “vivere” e “dignità”.

Credo che la critica radicale a questo mondo sia un primo passo necessario per immaginarne uno altro, diverso, dando priorità alla critica alle tecnologie che ne stanno forse irrimediabilmente compromettendo il volto e lo spirito profondo.

Ecco, ci sono cascatx, con tutti gli stivali e il resto: il momento dell’analisi, dello spiegone, della parte spessa del racconto. Ma non c’era bisogno forse.

Quest’alluvione, come spesso accade con i momenti di crisi, ha visibilizzato le contraddizioni di questo sistema economico-sociale molto più di quanto potessero fare le mie (tantissime!) parole.

Forse chi ha vissuto quei giorni di alluvione come una inedita spinta a un modo altro di intendere le relazioni, i ruoli, il tempo, l’utilità, le priorità, la morte, la sensatezza dell’agire, insomma tutto il paradigma della vita-in-società, ci era arrivatx benissimo da solx.

A queste persone è dedicato, infine, questo scritto e i desideri che vi sono rinchiusi: rompere gli argini, esondare, liberarsi.

Unx Demone del fango
Finito di scrivere il 16 o il 17 di giugno, a un mese dalla proclamata emergenza.

 

P.S. Mentre davamo alle stampe questo testo il governo Meloni, con mirabolante continuità col suo precedente “tecnico” del banchiere Mario Draghi, che diceva di osteggiare, ha nominato “commissario all’emergenza” il generale NATO Francesco Paolo Figliuolo. Con plauso bipartisan il condottiero della campagna militar-vaccinale dovrà gestire la ricostruzione. Se mai ci fosse stato bisogno di una prova in più dell’assoluta sudditanza dei fascisti nostrani (come dei democristiani, democratici etc) agli interessi e ai dettami USA (e di conseguenza NATO) e della militarizzazione sempre più normalizzata della società, eccola servita.

 


1  Il 25 maggio 2023 la vampira regina dell’UE, Ursula Von Der Leyen, e la fascista premier italiana, Giorgia Meloni, sorvolavano su un elicottero le zone alluvionate. In un’intervista alla stampa la Von der Leyen diceva ai microfoni “tin bòta romagna”. Biascicando una scaglia di dialetto nostrano cercava di accaparrarsi l’amore del popolo di Romagna, mentre prometteva 6 miliardi di euro dal PNRR che, di fatto, se mai arriveranno, finiranno nelle tasche dei soliti imprenditori, padroni, politici. C’ut vègna un chéncar Ursula!