ANCORA SULLA GUERRA IN UCRAINA. Un nostro articolo tradotto in Francese.

Il collettivo multilingue TŘÍDNÍ VÁLKA # CLASS WAR # GUERRE DE CLASSE che porta avanti un meritorio lavoro di traduzione e diffusione di scritti in difesa del disfattismo rivoluzionario e per l’opposizione alla guerra, ha tradotto in francese il nostro articolo PER RIBADIRE LE NOSTRE IDEE. Ancora sulla guerra ucraina e la deriva militarista di parte del movimento in una versione leggermente ridotta del testo originale in italiano “per andare dritti all’essenziale, cioè la discussione e l’azione pratica del disfattismo rivoluzionario”.
Lo potete trovare
QUI in versione PDF.

[brochure] Encore sur la guerre en Ukraine et la dérive militariste d’une partie du mouvement

Nell’introduzione che precede l’articolo tradotto, il collettivo Tridni Valka ha evidenziato limitate critiche su alcuni aspetti presenti all’interno del nostro scritto. In particolare sulle questioni della “difesa della rivoluzione” in Spagna, nel 1936, da parte degli anarchici, “della questione della natura delle relazioni sociali che esistono nel territorio del Rojava” (che il collettivo Tridni Valka considera capitalista e statalista), nonché su quello che il collettivo considera “un sostegno acritico alla resistenza antifascista italiana nella Seconda Guerra Mondiale”.
Altre posizioni espresse nel nostro testo, su cui il collettivo ha richiamato all’attenzione critica, o che sono state male interpretate (forse per mancata chiarezza nostra) riguardano le differenze tra il regime politico “liberale” o democratico e quello “dittatoriale”, oltre a quella che è stata creduta in maniera non esatta una “accettazione implicita in alcune circostanze dell’autodeterminazione sulla base della “comunità” etnica o linguistica”.

Vorremmo pertanto chiarire alcuni punti. Intanto quello che ci sembra il più importante: la differenza tra democrazia e dittatura per noi è esistente. La qual cosa non significa considerare necessariamente come “il male minore” la democrazia, vocabolo che si presta a varie interpretazioni, del resto.

Per noi democrazia e dittatura/fascismo rappresentano due facce, intercambiabili secondo la convenienza e il contesto, del dominio capitalista.
Se la democrazia moderna – il liberalismo politico – è sorta dalla volontà delle borghesie nazionali occidentali di dotarsi di una nuova forma di governo, più consona alle proprie esigenze rispetto alle forme del passato (la monarchia, e il suo risvolto economico, ovvero il feudalesimo), la storia ci ha mostrato che quando è stato ritenuto possibile e utile, le stesse borghesie nazionali hanno creato il fascismo (o comunque lo hanno appoggiato, portandolo a crescere e ad arrivare al potere) e sono ricorse alle dittature, militari o militaresche, per puntellare il proprio predominio sociale, specialmente in momenti di crisi.

Del resto anche il fascismo, che innegabilmente ha ristretto l’orizzonte dei cosiddetti diritti civili e politici, non ha mai realmente messo in pericolo gli interessi dei capitalisti. Negli anni del fascismo imperante, le borghesie nazionali si sono potute arricchire, specie con le rendite dell’industria bellica, dell’automobile, dell’industria pesante e con le ricche commesse nelle faraoniche opere pubbliche per glorificare le dittature, in una dimensione per altro “imperiale” e colonialista di sfruttamento (non è certo un segreto che in seguito i proprietari e i dirigenti delle imprese compromesse col fascismo siano riusciti a passare indenni tutti i processi di epurazione, riuscendo a conservare i profitti ottenuti con il sostegno al regime e con la guerra e quindi a comporre la classe dirigente post-fascista).
Il fascismo, insomma, del liberalismo ha adottato alcune concezioni economiche capitaliste, rigettando le premesse più propriamente politiche in tema di diritti individuali (anche se bisogna dire che Stati non fascisti come la Francia e l’Inghilterra, se erano politicamente liberali all’interno dei loro confini, erano in tutto e per tutto fasciste quando si trattava di relazionarsi con le popolazioni colonizzate).

Anche le differenze esistenti oggi tra Federazione Russa e Stato ucraino, che formalmente sono due “democrazie” (in entrambi i paesi vengono svolte elezioni, non importa qui esaminare se e quanto corrotte), del resto si vanno sempre più assottigliando, e non potrebbe essere altrimenti in periodo di guerra, quando, come ben affermava Simone Weil, gli Stati non combattono solamente contro il nemico esterno ma anche e soprattutto contro le loro proprie popolazioni (arruolamento, repressione, censura, limitazione ai diritti civili…). Basta guardare al reclutamento spinto imposto dallo Stato ucraino alla sua popolazione, al divieto di espatrio per chi viene considerato idoneo a combattere, all’incarcerazione dei disertori o alla totale censura delle notizie “scomode” nell’informazione (per esempio sul numero reale di disertori nelle fila dell’esercito ucraino). O ancora alle stringenti normative anti-sciopero attuate col favore del conflitto dal governo.
Zelens’Kyj non ha mai fatto mistero, tra l’altro, di guardare come modello allo Stato segregazionista e militarista di Israele, che oggi riassume in sé l’essere democrazia e fascismo allo stesso tempo (il suo risvolto fascista, naturalmente, è riservato ai palestinesi).

Però se poche o nulle sono le differenze esistenti nelle strutture economiche dei paesi democratici e dittatoriali o fascisti –  o come li vogliamo chiamare -, perché sempre di paesi capitalisti si tratta (e questo esempio può essere calzante anche per la Cina “comunista”), è chiaro che, per le popolazioni che vi vivono, la differenza tra un assetto politico più o meno autoritario del paese che abitano ha importanza. Insomma, non si può ridurre la questione democrazia-dittatura ad una sola concezione economica ma guardare anche al grado di “libertà” possibile e come a questa libertà si è giunti. Chiaro è che se il grado di libertà rimane disgiunto dal raggiungimento di una vera equità sul piano economico (raggiungibile interamente solo con la distruzione del capitalismo), la libertà che si acquista o è poca cosa, oppure è falsa perché a beneficiarne è realmente solo una parte della popolazione, a scapito della restante parte. Però quel “poca cosa” rivela comunque una differenza esistente, seppure ambigua e sempre bugiarda sotto l’aspetto socio-economico. Un “poca cosa” che è bene non dare per scontato, ancor di più se, come crediamo, il processo di guerra globale che si è innescato porterà ad accelerare dinamiche già presenti all’interno delle democrazie attuali, in vista di una loro evoluzione verso regimi sempre più autoritari e sempre meno disposti a concedere quelle libertà formali di cui in precedenza si facevano vanto per differenziarsi dalle dittature.

Quindi diciamo che ci appare palese che tra dittatura aperta, autocrazia (o democrazia autoritaria) e democrazia rappresentativa liberale ci siano delle gradazioni di forma, delle sfumature che fanno sì che certe libertà siano concesse in scala minore o maggiore a seconda della convenienza del governo in carica e della classe economica di cui questo rappresenta gli interessi, ma anche naturalmente del grado di conflittualità che il movimento di classe riesce ad impiegare per strapparle.
Detto questo, ciò non significa sostenere il “meno peggio” ma semplicemente fare una constatazione
elementare.

Sulle altre questioni, riguardo la nostra posizione su rivoluzione di Spagna, Resistenza italiana al fascismo e difesa del Rojava, ci limitiamo a scrivere qui che ovviamente non c’è nessun sostegno acritico a nessuna di queste tre situazioni. Sappiamo che durante una rivoluzione, o comunque un tentativo di liberazione sociale, ci sono sempre diversi attori in campo ed una pluralità di visioni, spesso contrapposte.

Nella Resistenza italiana c’erano formazioni di ogni tipo, da quelle libertarie a quelle comuniste autoritarie, da quelle che volevano approdare ad una Costituzione liberale fino a quelle monarchiche che avrebbero visto di buon occhio la piena restaurazione della monarchia.
La conclusione costituzionale e parlamentare rappresentativa della Resistenza italiana esprime il compromesso tra alcune di queste scuole politiche, principalmente tra le componenti comuniste autoritarie, quelle democristiane e quelle liberali, a discapito di altre opzioni politiche come per esempio quella monarchica, che si vedrà definitivamente sconfitta al referendum del 2 giungo 1946 con la nascita della Repubblica italiana; ma soprattutto esprime il tradimento di quei valori rivoluzionari che aveva stimolato una buona parte delle partigiane e dei partigiani che avevano combattuto contro i fascisti, militanti di base non solo di marca libertaria ma persino aderenti al Partito Comunista Italiano, che si sentirono traditi dalla svolta “democratica” del loro partito.

Per quanto riguarda il tentativo rivoluzionario in Spagna del 1936, sappiamo che ci sono diverse angolazioni visuali secondo come la si guarda, ma noi pensiamo che in quello scenario alcuni anarchici abbiano deviato dai loro ideali, accettando di entrare a far parte di un governo borghese, quello repubblicano, che aveva in terrore la rivoluzione tanto quanto il fascismo (se non di più).

Infine non ci facciamo illusioni nemmeno sulla ipotetica natura anarchica o comunista libertaria delle relazioni sociali che esistono nel territorio del “Rojava”, regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria, ovvero l’esperimento denominato Confederalismo Democratico, sorto durante la guerra civile del 2011 nello Stato siriano, poi diventata guerra vera e propria con l’entrata in scena delle diverse potenze regionali e non. Sappiamo che così non è. Sappiamo che in Rojava il Confederalismo Democratico basa il suo funzionamento su una specie di democrazia parlamentare sulla falsa riga di quelle occidentali, anche se fondata sul pluralismo culturale e su un certo decentramento del potere, risultato almeno in parte delle letture dei testi del socialista libertario Murray Bookchin da parte di Abdullah Öcalan. Reputiamo comunque degna di attenzione una lotta che è anche un tentativo organizzativo di convivenza sociale che, con tutte le contraddizioni del caso (eccessivo leaderismo e dipendenza da potenze straniere su tutte), si esprime in un contesto difficilissimo, accerchiato da tutte le parti da potenze regionali/globali e da scontri di religione. Ed è chiaro che questo tentativo di convivenza sociale, che speriamo mantenga un processo organizzativo il più possibile controllato dal basso, abbia destato un interesse ben più grande della chiamata alle armi in difesa dello Stato ucraino fatto da alcuni sedicenti anarchici.

Ultimissima cosa, quella che Tridni Valka chiama “l’accettazione implicita in alcune circostanze dell’autodeterminazione sulla base della “comunità” etnica o linguistica”. Probabilmente qui ci si riferisce al paragrafo in cui abbiamo scritto che “agli anarchici non interessano i confini statali, se una comunità si vuole unire per un interesse particolare, fosse anche l’appartenenza ad uno stesso ceppo linguistico (anche se per noi non dovrebbero esistere confini di sorta, nemmeno linguistici), lo faccia al di fuori dalle logiche statali, fuori dalle frontiere dell’istituzione Stato”. In effetti, tutto ciò potrebbe essere interpretato male. Quando abbiamo scritto quel passaggio, pensavamo naturalmente a comunità aperte e non escludenti, con un tipo di organizzazione orizzontale e non verticista; un esempio calzante potrebbe essere l’esistenza di federazioni anarchiche che si sono unite sulla base di un comune idioma linguistico, come la Federazione Anarchica Francofona che raggruppa anarchici francesi, belgi e svizzeri, aldilà delle frontiere statali di appartenenza. Ma comunque, ripetiamo, non ci sogneremmo mai di fare l’apologia a comunità definite “etnicamente” o culturalmente che escludono altre persone sulla base della lingua, della religione o di altro. Sogniamo un mondo in cui queste divisioni cesseranno di essere un impedimento per vivere assieme ed un pretesto per fare la guerra.

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