RAGIONANDO SULL’ASTENSIONISMO ELETTORALE

Le elezioni Regionali del Lazio e della Lombardia del 12 e 13 febbraio hanno premiato i partiti di governo, e in particolare Fratelli d’Italia della premier Giorgia Meloni, con l’elezione a governatori di Francesco Rocca (Lazio) e Attilio Fontana (riconfermato in Lombardia).
Quello che le recenti elezioni ci dicono, però, è che sempre meno persone vanno a votare.
È utile dare un’occhiata alle percentuali, perché mostrano in maniera davvero molto chiara come una grossa parte della società italiana non si senta più rappresentata dai partiti politici, cosa che come anarchiche e anarchici non possiamo non sottolineare.

L’affluenza è stata del 41,6% in Lombardia e addirittura del 37,1% nel Lazio (alle regionali del 2018 era stato rispettivamente del 73,1% e del 66,5%). Quasi due elettori su tre, insomma, non si sono recati alle urne. In Lombardia hanno votato poco più di 3 milioni di aventi diritto su quasi 8 milioni, e nel Lazio circa 1,8 milioni su quasi 5 milioni. Uno dei dati più bassi da quando esistono le elezioni Regionali. Per la regione Lazio è anzi stato il peggior dato di sempre. Dato reso ancora più influente, se si pensa che stiamo parlando delle due regioni più popolose d’Italia, una che esprime la capitale politica e l’altra quella economica.

Altro dato che spicca è che alle elezioni Politiche del 25 settembre 2022, l’affluenza era stata del 71% in Lombardia e del 64,3% nel Lazio. In appena 5 mesi, insomma, i partiti – tutti – hanno perso milioni di voti.

Lo stesso partito post-fascista Fratelli d’Italia, uscito vittorioso anche da queste Regionali, e che alle Politiche di settembre 2022 aveva raccolto circa 7.300.000 di preferenze a livello nazionale (guadagnando quasi 6 milioni di voti in più rispetto a quelli raccolti alle politiche 2018, “rubati” a Lega e Forza Italia), vede sparire nelle due regioni in cui si è votato a febbraio un milione di voti, passando dai 2,2 milioni di preferenze delle Politiche a 1,2 milioni delle Regionali. Effetto, può darsi, anche dell’atteggiamento guerrafondaio del governo italiano nel conflitto ucraino.

Anche il riconfermato Attilio Fontana in Lombardia ha vinto prendendo un milione di voti in meno rispetto alle regionali del 2018. Nel Lazio il centrodestra ha vinto prendendo meno voti di quelli ottenuti nelle regionali perse del 2018.

La parabola dei 5 Stelle, che da movimento che doveva “aprire il Parlamento come una scatoletta” ha finito per allearsi con qualsiasi partito dell’arco parlamentare pur di conservare poltrone e prebende, mutando opportunisticamente la propria politica come una bandierina cambia direzione al mutar del vento, li ha portati a passare in Lombardia da quasi un milione di voti nel 2018, a poco più di 100.000 voti in queste ultime regionali, e nel Lazio da circa 560.000 del 2018 ai 132.000 voti odierni.

A registrare una sfiducia sempre maggiore è anche il campo largo del centro-sinistra, che registra una vera e propria emorragia di consenso, in alcuni casi come nel Lazio dimezzando i propri voti (alleanza cs 2018 1.018.000, alleanza cs 2023 581.0001). Ciò spiegabile con il fatto che di politiche “di sinistra” quest’area politica da anni non si occupa, limitandosi ad essere l’ala sinistra del capitalismo, con un programma di liberismo selvaggio. Dati che non sono certo una sorpresa piombata per caso senza che i politici se l’aspettassero. Già alle regionali del 2014, per esempio, nella competizione elettorale che insediò Stefano Bonaccini del Partito Democratico al soglio dell’Emilia-Romagna, votò solo il 37%, dato bassissimo in una regione solitamente con tassi di partecipazione al voto fra i più alti d’Italia.

Debacle completa anche per i partitini della sinistra extraparlamentare, che troppe volte finiscono per incolpare della loro evanescenza di consenso più chi non è andato a votare anziché correggere le proprie scelte politiche, che privilegiano l’agone elettoralistico e la piantumazione di bandierine identitarie, laddove servirebbe invece un lavoro disinteressato sul territorio e la dismissione della logica della rappresentanza politica, da sostituire con un percorso di complicità con le sfruttate e gli sfruttati.

Ormai la gara elettorale dei partiti è quella a chi perde meno voti.

Dati comunque in linea con quelli che ci giungono da altre nazioni, in europa e in america, dove quella che viene considerata come la più grande democrazia al mondo – gli Stati Uniti – fa registrare da anni una partecipazione bassissima alle urne2, e dove a votare vanno perlopiù gli elettori bianchi, benestanti e più istruiti a differenza degli elettori delle classi meno abbienti appartenenti alle minoranze etniche, mentre in una dozzina di stati americani il diritto di voto per milioni di condannati per reati penali è completamente negato3. Negli USA per tentare di tamponare questa tendenza all’astensione è stato previsto il voto elettronico e quello per posta, che hanno però prodotto falle, malfunzionamenti, accuse di broglio e attacchi hacker.

Di fronte a questi dati, non si può non concordare con le anarchiche e gli anarchici: anche chi si assicura la maggioranza elettorale, rappresenta in realtà una piccolissima minoranza della società.

Questo lo si è detto molte altre volte, evidenziando come nella società italiana ci siano sempre state categorie di non aventi diritto che non possono essere rappresentate nemmeno se lo volessero, come i minori di anni 18 e le persone immigrate, non considerate italiane nemmeno se nate in Italia. Oggi si può però dire, con le percentuali che abbiamo visto, che i partiti non rappresentano nemmeno gli aventi diritto al voto.

La distanza siderale tra parte della società reale e i partiti politici, da anni in aumento, ha toccato forse il suo punto più alto, e non possiamo che rallegrarcene. I partiti politici rappresentano solo gli interessi di gruppi di potere, clientele e lobbies che muovono pacchetti di voti. Sono aziende il cui unico prodotto commerciale è un offerta elettorale che nella pratica non farà mai gli interessi delle persone comuni. Anche perché gli interessi in una società sono sempre diversi, e dipendono non già dalle sole opinioni politiche degli individui ma piuttosto dalle reali condizioni economiche e sociali, le quali dividono il campo tra classi garantite e classi sfruttate, con in mezzo una gamma di sfumature intermedie. Tra queste parti sociali antagoniste, di quale si facciano garanti i partiti politici è abbastanza evidente.

Non dobbiamo però commettere l’errore di credere che solo perché una maggioranza di persone non crede più alle promesse della politica istituzionale, allora si siano fatti passi in avanti nel cammino che prevede la liberazione dal sistema dei partiti e della delega in bianco.

Intanto perché è sempre possibile che dalla manica consunta del vestito della rappresentanza politica esca in futuro un nuovo imbonitore con nuove promesse, a cui ancora una volta le persone sfruttate vorranno provare ad affidare le proprie speranze di riscatto sociale. Sempre che nel frattempo il potere politico non opti per uno sviluppo maggiormente autoritario – presidenziale o peggio – anche profittando di un’emergenza, come può benissimo essere l’allargamento dell’attuale guerra fuori dall’Ucraina.
In secondo luogo, non sembra che alla disaffezione verso i partiti – ma potremmo estendere questo ragionamento anche ai sindacati – si accompagni una consapevolezza che oltre a rifiutare la logica della politica istituzionale e della delega, miri anche a combatterla e a costruire fresche dinamiche di organizzazione dal basso.

Pare, per altro, che spesso la non partecipazione, perfino quella passiva alle elezioni, sia dettata da un senso di rassegnazione individuale, in cui pesa la sensazione che il proprio volere non conti nulla. Questa rassegnazione, che da individuale può diventare generale, se rimanesse confinata al sistema elettorale ci andrebbe bene. Purtroppo però finisce per sconfinare nel senso di impotenza e nell’accettazione del sistema vigente, con il sottinteso che nulla si può fare per cambiare l’esistente o anche solo incidere nei processi vitali della comunità in cui si abita. Se non vale la pena far nulla, perché ogni tentativo è comunque destinato al fallimento, allora tanto vale astenersi non solo dalla farsa della contesa elettorale, ma anche da qualsiasi partecipazione a movimenti e lotte che provano ad auto-organizzarsi e a mutare i rapporti di forza esistenti nella società, oggi completamente sbilanciati a favore dei gruppi di potere e dello Stato.

I due anni di gestione pandemica, tra l’altro, con tutte le limitazioni statali all’incontro e alle attività sociali, hanno abituato molti a rifluire nel proprio privato, dove la partecipazione ha significato niente più che prendere parte ad una chat di gruppo di fronte ad uno schermo. Disabituati ai rapporti non mediati, con in più la rarefazione dei luoghi preposti all’incontro e alla socializzazione – e l’attacco/sgombero di centri sociali e spazi occupati ci dovrebbero dire molto, in questo senso – difficilmente riusciamo a intraprendere o anche solo a meditare percorsi collettivi di liberazione.

Così anche le mobilitazioni, anarchiche e non, per il compagno Alfredo Cospito in sciopero della fame e per l’eliminazione degli abomini del sistema-carcere sembrano, a prima vista, non dovere interessare quella classe di persone che pure avrebbe da temere la recrudescenza repressiva, per l’appartenenza a categorie sociali in costante impoverimento, dunque suscettibili di ricevere quello stigma sociale a cui fa rapido seguito la criminalizzazione.

Di fronte a questa acquiescenza sociale, che in Italia è più manifesta che altrove – basti vedere che nello stesso momento in Spagna e Francia, nostre vicine prossime, milioni di persone si mobilitano contro i tagli alla sanità e l’innalzamento dell’età pensionabile, anche con azioni contro i capitalisti e scontri con la polizia – dovremmo seriamente pensare a come far rinascere un sentimento di rivincita che alla rabbia sociale, sicuramente esistente, possa abbinare il diradamento dalla nebbia della rassegnazione oggi presente. Si corre il rischio, altrimenti, che di nuovo, come nel caso della pandemia, siano i gruppi di destra, quelli neofascisti, a provare di intercettare l’insoddisfazione sociale latente per convogliarla nelle sacche del populismo aclassista e razzista.

Se non vogliamo piangerci addosso, e se è vero che il mondo non si cambia con la delega, servono lotte che siano incisive, rispetto a quelli che sono considerati problemi dalla maggioranza della classe sfruttata (il carovita, la povertà, lo sfruttamento lavorativo, la questione casa, la sottrazione di servizi pubblici…), problemi che poi sono anche i nostri, che la politica dei partiti non risolve ma semmai amplifica; ma occorre anche che queste lotte costruiscano e ri-costruiscano i propri luoghi di auto-organizzazione e conflitto, oggi troppo carenti, e conseguano anche qualche risultato, fosse pure limitato, perché solo a seguito dell’esempio di conquiste tangibili si possono sospingere le persone fuori dal guscio del privato. È risaputo che chi perde sempre non vuol più giocare, è solo quando si vince che ci si prende gusto e si vuol vincere di nuovo, ancora ed ancora.

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Piccoli Fuochi Vagabondi

https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org

16 febbraio 2023

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NOTE

1 Per questi e i precedenti dati, vedere https://elezioni.interno.gov.it/regionali/scrutini

2 Negli Stati Uniti alle elezioni presidenziali votano mediamente circa la metà degli aventi diritto, mentre alle elezioni di medio termine le percentuali sono decisamente più basse. Questa tendenza ha subito una interruzione temporanea alle presidenziali del 2016, con la vittoria del democratico Joe Biden sul repubblicano Donald Trump, quando si è registrata un’affluenza del 67% degli aventi diritto al voto, la più alta da oltre un secolo.

3 Secondo il rapporto “locked out” del 2020 di un ente di ricerca pubblico americano, The Sentencing Project, sono almeno 5 milioni gli americani privati del voto a causa di queste norme. Chi ne subisce gli effetti sono principalmente i neri e gli ispanici, detenuti nelle carceri o in stato di libertà vigilata o condizionale. Gli USA non sono comunque le sole democrazie in cui i condannati per reati penali perdono i loro cosiddetti diritti. Esempi possono essere la Bulgaria e il Regno Unito, dove i detenuti perdono per legge la possibilità di votare. Per quanto riguarda l’Italia, non possono votare coloro che sono stati condannati all’interdizione dai pubblici uffici, perpetua o temporanea:perpetua per i condannati all’ergastolo e i condannati ad una pena interdittiva superiore ai 5 anni; temporanea invece come pena accessoria nel caso di sentenza di condanna per reati non inferiore a tre anni.Può venire altresì sospeso il diritto di voto per chi è sottoposto a misure di prevenzione, libertà vigilata, divieto di soggiorno in uno o più comuni.Secondo l’associazione Antigone, meno della metà dei detenuti riesce effettivamente a votare in Italia per tutta una serie di impedimenti, motivo per cui i detenuti non sono una categoria troppo considerata dai partiti politici.