EUROPA GUERRA E NOCIVITÀ.

L’APPROVVIGIONAMENTO DI GAS, TRA POLITICHE ENERGETICO-ECONOMICHE, ESTRATTIVISMO, DANNI ECOLOGICI E LEGAMI CON LA GUERRA. IL CONTESTO IN CUI S’INSERISCE IL RIGASSIFICATORE DI RAVENNA

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IL RIGASSIFICATORE DI RAVENNA
Dopo un iter approvativo accelerato, venerdì 28 febbraio 2025 è arrivata a Ravenna l’enorme nave BW Singapore di Snam, lunga quasi 300 metri e alta 44 (circa un palazzo di dieci piani), che fungerà da rigassificatore off-shore (FSRU, Floating Storage and Regasification Unit).
Ancorata a un basamento a circa 8,5 km dalla costa di Punta Marina (RA), in corrispondenza di un’esistente piattaforma che veniva utilizzata per ricevere le navi petroliere, vi rimarrà per almeno 25 anni. Per difenderla dalle mareggiate sarà costruita anche una diga frangiflutti di cemento lunga 880 metri, larga 22 metri e alta 6,5 ad Est del rigassificatore. L’Autorità portuale di Ravenna si è incaricata di dare attuazione a quest’ultima struttura, per 216 milioni di euro, con fondi concessi da Cassa Depositi e Prestiti (CDP).
Ad aggiudicarsi la commessa per la realizzazione della diga è la società ingegneristica Btp Infrastrutture, dopo aver vinto al Tar di Bologna un contenzioso con la seconda classificata alla gara d’appalto, la Rina Consulting Spa, altra ditta ben inserita nell’affare dei rigassificatori. Si calcola che ci vorrà almeno un anno e mezzo/due per completarla. Questo significa che nei primi due anni di attività, in caso di condizioni avverse, sarà necessario disormeggiare la BW Singapore dalla piattaforma.

A Punta Marina Terme è prevista per di più la costruzione di una centrale di decompressione, denominata PDE-Wobbe, per rendere idoneo il gas all’immissione nella rete nazionale.
La centrale sarà alta 10 metri e occuperà uno spazio pari a tre campi di calcio.

L’investimento complessivo di Snam per questo progetto equivale ad un miliardo di euro, di cui circa la metà per l’acquisto della Bw Singapore nel dicembre 2023 da parte della controllata Snam FSRU Italia Srl. Snam ha poi incaricato Saipem (società controllata da Eni e CDP) ed altre ditte, di cui parleremo in seguito, di realizzare materialmente l’impianto.
Assieme al terminal di Piombino, Livorno, Panigaglia (La Spezia) e Porto Viro (Rovigo), e a quelli in progetto al sud per accorciare le rotte marine, a Porto Empedocle (Agrigento) e Gioia Tauro (Reggio Calabria), il rigassificatore di Ravenna provvederà ad accogliere e riportare allo stato gassoso il gas naturale liquefatto (GNL) che arriva dall’altra parte del mondo, di provenienza principalmente statunitense ma anche da Algeria, Qatar e in misura minore da Egitto, Mozambico e Congo, paesi con governi autoritari con cui l’Italia ha forti legami di collaborazione industriali e militari e ai quale vendiamo armi e navi da guerra.

Detto di sfuggita, gli Stati Uniti sono i leader dell’esportazione di GNL, ma la particolare tecnica del fracking con cui lo producono è molto più inquinante e costosa del metano ottenuto con le tecniche di estrazione tradizionali e del GNL di altri Paesi. Le procedure richiedono grandi quantità d’acqua e perforazioni che aumentano il rischio di dissesto idrogeologico e terremoti, oltre a prevedere l’uso massiccio di sostanze chimiche. Inoltre durante le fasi di produzione si fa ampio uso del flaring, la combustione in torcia del gas in eccesso, che produce grosse quantità di CO2 immesse in atmosfera. Ovviamente, nemmeno a dirlo, la prima nave gasiera a rifornire il rigassificatore di Ravenna stipava GNL statunitense. Si tratta della gasiera Flex Artemix del colosso svizzero-statunitense Gunvor, con sede a Ginevra, che è arrivata a fine marzo dalla Louisiana (Stati Uniti). Parliamo della stessa Gunvor che nel 2024 è stata dichiarata colpevole della corruzione di funzionari governativi in Ecuador dal tribunale federale di Brooklyn e anche dalla Svizzera.

Il trasporto del GNL, stoccato a una temperatura di 162 gradi sotto zero, avviene via mare con navi cisterne metaniere, che arriveranno a Ravenna circa una ogni 5-7 giorni1.
Questo metodo di trasporto viene preferito perché presenta un volume di 600 volte inferiore a quello del gas a pressione standard, e quindi è più semplice stivarlo e trasportarlo su lunghe distanze.
Il processo di trasformazione dallo stato liquido a quello gassoso sfrutta l’acqua del mare e, come vedremo in seguito, questo aspetto ha una sua problematicità.
Una volta rigassificato a Ravenna il metano sarà immesso, attraverso la costruzione a sud della città di un metanodotto lungo circa 40 km e del diametro di 90 cm, nella rete nazionale gestita da Snam, che a sua volta sta completando gli espropri per la messa in opera dei metanodotti sulla Linea Adriatica Sulmona-Minerbio: 700 km complessivi di cui 425 km di nuova realizzazione, che toccheranno cinque regioni per un investimento infrastrutturale di 2,5 miliardi.
Ad aprile 2023 Snam ha ricevuto da CDP un primo finanziamento da 300 milioni di euro, altri 200 milioni CDP li ha versati a maggio 2024 per il rifacimento del gasdotto Ravenna-Chieti che sarà anch’egli interconnesso con la Linea Adriatica e completato secondo i piani entro il 2026.

LA LINEA ADRIATICA
Due parole sulla Linea Adriatica a questo punto sono d’obbligo.
La posa dei gasdotti di questa linea, che dovrebbe essere completata integralmente per la fine del 2027, interessa anche il territorio romagnolo con la direttrice Sestino-Minerbio sia in Appennino che in pianura (142 km, con entrata in funzione prevista a fine 2026), una zona a forte rischio sismico (terremoti) e idrogeologico (frane e alluvioni). La posa dei tubi prevede trivellazioni, tunnel e l’attraversamento di diversi corsi fluviali.
La direttrice Sestino-Minerbio è la prima che sarà realizzata ed è divisa in 5 lotti, tutti già appaltati da Snam. La ditta che si è aggiudicata la commessa per i lavori di uno dei tratti romagnoli più critici, quello che si interseca con la superstrada E45, i monti e il corso del fiume Savio, è la SICIM di Busseto (PR).

I comuni romagnoli, amministrati dalla destra o dal centro-sinistra, hanno dato tutti il loro assenso al passaggio dei gasdotto, dopo le promesse di Snam della solita manciata di ristori da devolvere come compensazione economica ai proprietari dei terreni interessati (alcuni dei quali a dire il vero non hanno gradito). Idem le associazioni degli agricoltori romagnoli, che hanno sottoscritto con Snam un accordo il 21 giugno del 2023.

La rete adriatica gestita da Snam, finanziata in parte con fondi europei del PNRR ma anche, come detto, da Cassa Depositi e Prestiti, prevede di incrementare di 10 miliardi di metri cubi all’anno la capacità di trasporto di metano lungo la direttrice sud-nord, verso i poli energivori della Pianura Padana, del Nord Italia e dell’Europa. Dagli hub di entrata di Mazzara del Vallo (Trapani), Gela (Caltanissetta) e Melendugno (Lecce), con gas proveniente rispettivamente da Algeria, Libia e Azerbaijan, il metano arriverà a Sulmona, dove verrà realizzata una centrale di compressione. Per consentire a Snam di costruirla, il governo ha autorizzato la distruzione di alcune testimonianze archeologiche recentemente scoperte, un insediamento umano risalente a più di 4.000 anni fa. Da Sulmona il gasdotto della Linea Adriatica raggiungerà infine Minerbio, nel bolognese, dopo aver attraversato i territori di Abruzzo, Marche, Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna.

Con l’entrata in funzione del rigassificatore di Ravenna, anche il GNL rigassificato dall’impianto ravennate verrà convogliato nella Linea Adriatica, fino a raggiungere la stazione di stoccaggio Snam di Minerbio, nel bolognese, terminal dei flussi in arrivo dall’Africa e dall’Azerbaijan e vero e proprio deposito nazionale italiano del gas e tra i più importanti d’Europa.
A Minerbio arriva, per esempio, il gas africano dopo una corsa di 2.200, per mezzo del gasdotto Transmed, altrimenti noto come “linea Enrico Mattei”, che dal Sahara algerino arriva fino al punto d’ingresso sulla rete nazionale, a Mazara del Vallo in Sicilia, e da qui dritto a Minerbio. A questo gasdotto dovrebbe collegarsi quello Trans-Sahariano in cantiere nel 2030, di oltre 4.000 km, che dalle ricche riserve di Warri in Nigeria, passando per lo Stato del Niger, dovrebbe arrivare fino alla città di Nassni R’Mel in Algeria e da lì, attraverso le coste mediterranee e l’Italia, verso i mercato europei.
Un piano di saccheggio delle fonti energetiche africane (circa 30 miliardi di metri cubi all’anno) che causerà la rovina e lo sfollamento dei villaggi, e creerà le premesse per ulteriori migrazioni climatiche, mascherato da piano per lo sviluppo.

NUOVO COLONIALISMO
L’Africa, infatti, per l’Europa è un continente da depredare. Nigeria ed Algeria, insieme all’Egitto, sono infatti paesi chiave dell’approvvigionamento europeo, costituendo quasi l’80% della produzione di gas dell’intero continente africano.
Ad oggi l’Algeria è il primo paese da cui l’Italia importa gas, nel 2022 ha preso infatti il posto della Russia come primo paese fornitore.

Ma anche il Congo è diventato sempre più centrale. Un paese, ex colonia francese, che basa la sua intera economia sull’esportazione di gas e petrolio, da 30 dominato da dittature militari, conflitti coi Paesi confinanti e guerra civile, ma anche ricco di miniere e terre rare molto ambiti dalle multinazionali big tech, dove lavorano per pochi spiccioli anche bambini di tre anni. I rapporti di natura economica-militare tra Italia e Congo vertono principalmente sul gas, e sono stati rafforzati recentemente tramite accordi che Eni ha avviato col governo locale per importare in Italia il gas che estrae nelle acque congolesi, attraverso l’impianto di liquefazione galleggiante Tango FLNG, che ha una capacità di 1 miliardo di metri cubi di gas l’anno, e che fa parte del progetto Congo Lng di Eni a Point-Noire. Una seconda unità FLNG è tuttora in costruzione e inizierà la produzione di GNL nel corso del 2025. In pratica Eni ha fatto diventare il Congo un paese esportatore di GNL. Attualmente il Congo è il terzo produttore di petrolio dell’intero continente africano ma sono presenti anche 280 miliardi di metri cubi di riserve di gas naturale ancora non utilizzate, che è la ragione per cui Eni da 55 anni è presente nel Paese.
E dove c’è un accordo commerciale è sicuro ci siano anche accordi di cooperazione militare e tecnologica. Tra governo congolese e i vari governi italiani negli anni sono stati ratificati diversi accordi in materia di difesa e sicurezza. La stessa cosa accede col Mozambico, un altro Paese africano con cui l’Italia, ed Eni, ha accordi commerciali (gas, GNL) e militari.

Gli interessi in Africa delle imprese italiane non si limitano comunque all’Eni. Alla costruzione del Gasdotto Trans-Sahariano, di cui abbiamo parlato poco più sopra, collabora infatti l’italiana Ansaldo Energia, che assieme alla Nigerian National Petroleum Corporation e alla società di Stato algerina Sonatrach deterrà anche le quote proprietarie.

Spostandoci dall’Africa, notiamo che anche in Medio Oriente le società italiane hanno il loro bel rendiconto. Nella petrolmonarchia del Qatar, uno dei più grandi Paesi esportatosi di GNL, che l’Italia acquista per i suoi rigassificatori, le “nostre” società fanno i loro buoni affari: Fincantieri da tempo vende navi militari al Paese e lo Stato italiano intende rafforzare la sua presenza militare. Giorgia Meloni ha recentemente rinsaldato i rapporti con l’emiro Tamin Bin Hamad Al-Thani, con il proposito di realizzare una nuova base militare nell’area, strategica nel contesto Mediorientale e del Golfo Persico.
Anche il gruppo romano ELT, che dal 2017 è presente in Qatar con un ufficio commerciale grazie all’esperienza nel settore Emso (Elettromagnetic spectrum operations) ha firmato a dicembre 2024 un accordo con le forze armate quatarine per realizzare un Centro unificato di guerra elettronica. Ebbene, non deve sorprendere allora che anche in Qatar troviamo l’Eni. Già presente con diversi contratti aperti per l’importazione di gas in Italia, a fine 2023 l’azienda del cane a sei zampe ha siglato un contratto a lungo termine con QatarEnergy Lng Nfe, joint venture tra l’Eni stessa e QatarEnergy, per lo sviluppo del progetto North Field East (Nfe). Si tratta della fornitura, a partire dal 2026 e per una durata di 27 anni, di 1,5 miliardi di metri cubi l’anno di GNL da consegnare al rigassificatore Golar Tundra/Italis Lng di Piombino.

Questi sono solo alcuni dei paesi, tra i più importanti, da cui arriva il GNL che per l’Italia e per l’Europa ha soppiantato quasi del tutto il gas russo. È proprio dal tentativo di smarcarsi dalla dipendenza dal gas russo che prende ufficialmente le mosse l’iter autorizzativo accelerato per realizzare le strutture di rigassificazione a Piombino e a Ravenna.

L’ITER APPROVATIVO
Quello di fare di Ravenna un importante centro della rigassificazione a livello nazionale ed europeo è un progetto nato durante il governo Draghi nel 2022, a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Un conflitto che ha visto i paesi europei schierarsi con gli alleati della Nato, Stati Uniti in testa, attraverso la decisione di rifornire di armi il governo ucraino.

I lavori concreti per ospitare il nuovo terminale di rigassificazione al largo della costa di Ravenna sono iniziati il 19 giugno 2023, quando l’ex presidente della Regione, Stefano Bonaccini, del Partito Democratico, grande sponsor dell’opera, fu nominato commissario straordinario dal successivo governo Meloni. Per il rilascio dei permessi sono stati sufficienti 120 giorni, in cambio la promessa di 25 milioni di euro di compensazioni. Mentre il percorso autorizzativo e realizzativo complessivo è durato meno di tre anni. Tempi da record se si considera che un impianto simile – quello collocato a circa 15 km al largo di Porto Viro (Rovigo) – è entrato in funzione nel 2009 dopo 14 anni dal primo studio di fattibilità. Il 21 marzo 2025 infine il ministero dell’Ambiente ha rilasciato con un apposito decreto l’Autorizzazione Integrata Ambientale, con validità decennale.

Questa velocità si spiega con il contesto internazionale in cui il progetto è dichiaratamente ed esplicitamente inserito. L’intera rete adriatica, in cui va ricompreso senz’altro il progetto di rigassificazione di Ravenna, fa infatti parte del piano “RePower EU”, che in vista della contrazione del gas russo intende potenziare le infrastrutture per il fabbisogno energetico nazionale e per l’export di gas verso gli Stati dell’Europa centrale.

Questa necessità si interseca con esigenze di natura commerciale ed economica. Una direttiva europea, la DAFI, aveva richiesto in passato l’adozione del GNL per il trasporto pesante e per quello marittimo, con l’Italia che il 16 dicembre 2016 (D.Lgs 257) ha assunto l’impegno di coprire col GNL il 50% del consumo marittimo e il 30% di quello stradale entro il 2030. L’impegno prevede la creazione di una rete di infrastrutture per l’approvvigionamento di GNL lungo i corridoi trans-europei di trasporto intermodale (stradale e ferroviario) TEN-T, in cui il porto di Ravenna rientra. Infatti il rigassificatore è solo una parte di quel progetto complessivo, economico ma anche strutturale e strategico, che vuole fare della città di Ravenna un hub energetico a livello europeo. Ma di questo parleremo fra poco. Ora concentriamoci su alcune informazioni utili a illustrare quello che è il quadro d’insieme.

I FLUSSI DEL GAS
Bisogna sapere che i flussi di gas che dall’estero arrivano in Italia lo fanno da sette punti di ingresso diversi, in corrispondenza dei gasdotti e dei rigassificatori. La quota di ingresso a Tarvisio, in Friuli Venezia Giulia, da dove arrivava la totalità del gas russo tramite il TAG (Trans Austria Gas) passando attraverso Ucraina, Slovacchia e Austria, si è quasi azzerato dopo il conflitto russo-ucraino2, anche se nel 2024 ha avuto per la prima volta dall’invasione russa un aumento del +97,1% (prova forse di trame sottotraccia del governo italiano, o di Eni, con il Paese di Putin).
Dopo il 2022 la Ue ha di fatto ridotto di molto l’acquisto di metano russo, anche se mai del tutto completamente3. Ciò si è verificato dopo le sanzioni e la fine dell’accordo di Gazprom con l’Ucraina, che ha chiuso uno degli ultimi gasdotti che portava gas all’Europa centrale e soprattutto dopo il sabotaggio ucraino del gasdotto Nord Stream, attaccato con esplosivi il 26 settembre 2022, che attraverso il Mar Baltico trasportava il gas della Federazione Russa in Europa occidentale, passando per la Germania.
Anche se i Paesi europei importano ancora quantità di gas dalla Russia, soprattutto GNL via nave (ancora nel 2023 veniva spedito in Europa il 45% della produzione di GNL russo), le dichiarazioni del commissario europeo per l’energia, Dan Jorgensen, hanno ribadito che la UE è determinata «a non continuare più ad acquistare gas e quindi a fornire entrate per il forziere di guerra di Putin». Le parole di Dan Jorgensen, manifestate a febbraio 2025, servivano a smentire il Ministro italiano dell’ambiente e della sicurezza energetica del governo Meloni, Gilberto Picchetto Fratin, che invece non aveva escluso nuovi rapporti commerciali con la Russia dopo un’eventuale fine delle ostilità di Putin in Ucraina.

CONSIDERAZIONI STRUTTURALI E AMBIENTALI
Si impongnono dunque le prime considerazioni. Partiamo da quelle strutturali e ambientali.
I rigassificatori, come le opere a questi collegate, vale a dire centrali e metanodotti spesso vicinissimi a zone abitate, sono un potenziale pericolo per la sicurezza pubblica, per i rischi sempre possibili che comportano.
Pensiamo alla strage per l’esplosione del deposito di idrocarburi dell’Eni a Calenzano (Firenze) avvenuta il 9 dicembre 2024, dove 5 persone hanno perso la vita e altre 28 sono rimaste ferite, oppure al caso di Mutignano di Pineto (Teramo) nel 2015 quando un metanodotto Snam esplose a causa di uno smottamento. Possiamo ricordare l’esplosione di un metanodotto a Gallio, nell’altopiano di Asiago, ad ottobre 2024, che ha fatto crollare una intera casa uccidendo una persona o il più recente episodio avvenuto a Falconara Marittima (Ancona) il 21 marzo 2025 quando un incendio devastante ha investito la raffineria Api dopo l’ennesimo incidente.
Incidenti gravi si sono verificati anche all’estero. Ne citiamo due a titolo di esempio ma se ne potrebbero riportare tanti altri. Negli Stati Uniti, nel terminale GNL di Freeport, in Texas, nel 2022 un incendio ha ridotto di un quinto le esportazioni americane di GNL per 8 mesi. A fine marzo 2025 un’esplosione di un gasdotto della compagnia energetica Petronas, a Kuala Lumpur in Malesia, ha coinvolto una cinquantina di abitazioni, causando oltre 100 feriti con ustioni e problemi respiratori.
Il pericolo rappresentato da impianti di trattamento GNL, rigassificatori, centrali di compressione, condotte e gasdotti è reale, al di là delle rassicurazioni di istituzioni e società coinvolte. Pensiamo solamente al fatto che il rigassificatore di Panigaglia (La Spezia), al 100% di proprietà di Snam, è classificato dalla “normativa Seveso” come “a rischio di incidente rilevante”.

Gli impianti per la rigassificazione sono altresì una sicura fonte di dissesto e inquinamento marino: è dimostrato per esempio come nei loro pressi vi sia un’anomala moria di fauna ittica, come le tartarughe di mare, dovuta all’uso dell’acqua che poi viene reimmessa in mare ad una temperatura di circa 7 gradi più fredda, ed anche perché per la manutenzione, pulizia e funzionalità degli impianti vengono sversati in mare litri di cloro. Questo perché esistono vari sistemi di rigassificazione: quelli che usano l’1% del GNL in dotazione, bruciandolo per riportare allo stato gassoso il metano, e quelli a circuito aperto, come a Ravenna, che usano acqua di mare che addizionano con ipoclorito di sodio (ovvero candeggina) per evitare che alcuni organismi possano proliferare all’interno della struttura4. Quest’acqua poi viene reimmessa nel mare coi danni che possiamo ben immaginare.

Oltre a questo fattore, gli impianti di rigassificazione, come quelli di liquefazione del gas, sono fonte di surriscaldamento dei mari e degli oceani, che è poi la vera causa dell’aumento della frequenza di uragani e alluvioni. Questo perché sono alimentati da fonti fossili. Già dagli anni ‘70 le aziende come Eni erano consapevoli dei rischi delle emissioni di CO2 correlate all’impiego di fonti fossili come carbone, petrolio e gas metano, eppure nel 2024 le estrazioni ci combustibili fossili di Eni e delle altre compagnie estrattiviste non sono diminuite ma aumentate. Eni intende incrementarle di almeno il 3% ogni anno fino al 2028. Il metano è anche peggio della CO2: se disperso in atmosfera ha un potenziale di gas serra 86 volte superiore a quello della CO2. Se bruciato forma particolato sottile, dannoso per il sistema respiratorio e potenzialmente cancerogeno. Più del 90% degli europei vive in zone in cui si concentrano registrazioni di particolato fine superiore ai limiti fissati dall’OMS e la Pianura Padana, nemmeno a dirlo, è l’area più inquinata di tutte.

CONSIDERAZIONI ECONOMICHE E GEOPOLITICHE
Affrontati i temi ambientali, la cosa però più importante da mettere in evidenza è come gli impianti di trattamento e rigassificazione del GNL rispondano a quelle che di fatto sono logiche di guerra, e sono considerati strategici proprio a partire dallo scenario geo-politico sorto col conflitto russo-ucraino.
Questo conflitto non ha prodotto solo un profitto a Putin con l’assorbimento delle regioni minerarie dell’Ucraina orientale, che molto probabilmente non saranno restituite nemmeno laddove si arriverà a un accordo, ma anche agli Stati Uniti e non solamente per il famoso accordo sulle terre rare ucraine in cambio degli “aiuti” militari (aiuti non così disinteressati come volevano farci credere).
Non si è rilevato abbastanza come la guerra in Ucraina, oltre che una battaglia per l’influenza politica tra potenze imperialiste (da una parte la Russia, dall’altra UE e Nato), sia anche stata una lotta per il gas naturale e come le politiche energetiche dei paesi europei ne siano uscite ridisegnate.

Dopo la riduzione dei flussi di gas russo, per mezzo delle sanzioni e del sabotaggio ucraino del Nord Stream (26 settembre 2022) gli Stati Uniti sono riusciti ad imporsi come primo paese fornitore di GNL all’Europa, attraverso appositi accordi commerciali che hanno sfruttato il conflitto in corso. L’Unione Europea, prima della guerra ucraina, era dipendente per il 45% dal gas russo (mentre per l’Italia il gas russo rappresentava circa un terzo del totale di quello importato). Già il 25 marzo 2022, ad appena un mese dall’invasione russa dell’Ucraina, a conclusione di un incontro tra l’allora presidente americano, Joe Biden, e la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Teyen, UE e USA siglavano un accordo per la fornitura di 15 miliardi di metri cubi di gas liquefatto americano nel 2022 e 50 miliardi di metri cubi all’anno almeno fino al 2030, con la creazione della Us-Ue energy security task force. Accordo a cui hanno fatto seguito decine di nuovi contratti.

Nel 2023 l’Unione europea ha importato oltre 120 miliardi di metri cubi di GNL e gli Stati Uniti sono stati il principale fornitore coprendo quasi il 50 per cento della domanda della trentina di rigassificatori sparsi per l’Europa (in tutto il mondo ce ne sono circa un ottantina). Francia, Spagna, Norvegia, Germania, Regno Unito, Grecia e Italia sono i paesi che stanno puntando maggiormente sullo sviluppo dei terminal per la rigassificazione e che hanno in programma di realizzarne di nuovi.
Sebbene gli Stati Uniti esportino il loro GNL anche in altri luoghi, come per esempio il Canada e il Giappone, attualmente forniscono all’Europa quasi il 50% della loro produzione di GNL, proveniente soprattutto dal Texas, il più grande produttore di gas e di petrolio degli USA (la capitale Houston è soprannominata energy city). Al confine tra Texas e Lousiana si trovano la maggior parte dei terminal di liquefazione per l’export del GNL: Sabine Pass (della Cheniere Energy), Cameron LNG (della Sempra), Calcasieu Pass (della Venture Global) e Freeport LNG (dell’omonima società).

Per l’UE l’acquisto di GNL americano ha un costo quasi doppio rispetto all’acquisto di gas russo. I costi maggiori (del doppio o del triplo) dipendono dalla tecnica del fracking e dalla successiva liquefazione che per il produttore ha spese di estrazione, di lavorazione e di trasporto molto più alte (un’inchiesta sui maggiori costi del GNL americano rispetto al gas russo sono stati pubblicati addirittura dal Sole 24Ore, il giornale dei padroni).
Anche la costruzione dei rigassificatori per convertire il GNL in gas hanno costi di realizzazione e di gestione così ingenti da incidere notevolmente sul prezzo finale, tanto che l’impianto gemello di quello di Ravenna, la nave rigassificatrice Golar Tundra/Italis Lng che secondo programma avrebbe dovuto essere spostata da Piombino a Vado Ligure (Savona) a fine 2025, potrebbe restare in terra toscana o addirittura raggiungere Ravenna raddoppiando il numero di rigassificatori presenti. Ciò per gli alti costi di realizzazione delle strutture di adeguamento e allacciamento alla rete nazionale, che renderebbero economicamente insostenibile l’intero progetto, almeno stando a quanto dichiarato da Arera, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, che delibera sui piani di sviluppo delle reti di trasporto del gas.

Quanto scritto finora dimostra comunque l’enorme massa di quattrini che gli Stati Uniti, soppiantando le compagnie russe, hanno ricavato e stanno ancora ricavando dalla vendita del GNL sfruttando la guerra ucraina.

Per quanto riguarda l’Italia l’obiettivo dichiarato, ribadito a marzo 2025 dal ministro dell’Ambiente e Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, durante il KEY Energy Transition Expo di Rimini, è quello di raggiungere almeno il 50% degli approvvigionamenti totali di gas italiano tramite il GNL. Con l’entrata a pieno regime dell’impianto di Ravenna la capacità complessiva di rigassificazione italiana salirà a 28 miliardi di metri cubi, equivalenti ai volumi che venivano importati nel 2021 dalla Russia col TAG.
Per l’impianto di Ravenna si parla di una capacità di trattamento di 5 miliardi di metri cubi l’anno di GNL, il che si traduce nel soddisfacimento dell’8% dell’intero approvvigionamento italiano di gas. Solo nel 2023 le importazioni di GNL da parte dell’Italia sono aumentate del 13%, mentre il consumo nazionale di gas naturale scendeva del 10%. L’arrivo del rigassificatore a Ravenna è quindi strettamente legato agli scenari bellici internazionali.

IL RUOLO DEGLI STATI UNITI
L’ostentato sovranismo europeo della Commissione UE in materia di politiche energetiche e militari, dopo il ritrovato flirt di Trump con Putin, non deve trarre in inganno. Di fatto l’Europa, dato il ruolo chiave italiano nelle politiche degli approvvigionamenti energetici dell’Unione, diventa ancora più dipendente dagli USA e proprio in un periodo storico in cui il presidente statunitense Donald Trump promette una guerra commerciale a suon di dazi contro i Paesi europei. Trump può permettersi allora di far approvare i dazi sui beni dagli altri Paesi mentre impone le sue strategie per ridisegnare lo scacchiere in Medio-Oriente, mentre rivendica la consegna delle Terre Rare ucraine, mentre riorganizza lo schema delle alleanze internazionali e minaccia l’annessione di Canada, Golfo del Messico e Groenlandia, perché tutto ciò gli viene anche dalla sicurezza che gli Stati Uniti rivestono un ruolo geopolitico cruciale anche grazie alla posizione di leadership nell’export del GNL.
Il ricorso alla perforazione orizzontale e al fracking hanno portato la produzione di gas statunitense a raddoppiare. Viene calcolato che, per la fine del decennio, quasi una nave metaniera su tre di quelle adibite al trasporto di GNL partirà dagli Stati Uniti5.

Aziende americane come Cheniere Energy e Venture Global Incv hanno investito miliardi nella costruzione di impianti di liquefazione per vendere al mercato estero. Negli USA sono operativi otto impianti di liquefazione del GNL, mentre altri sono in costruzione6. A Lake Charles, in Lousiana, i lavori per la realizzazione dell’impianto Driftwood LNG della Tellurian ha prosciugato una vasta zona umida mentre la scuola locale, frequentata dai figli della comunità afrodiscendente, è stata costretta a chiudere dopo che delle 600 famiglie originarie ne sono rimaste solo 60. Alcuni degli impianti americani sono stati finanziati anche da banche italiane. Intesa Sanpaolo ha sostenuto quelli di Sabine Pass e Freeport e ha concesso miliardi di dollari alle società che gestiscono i terminal GNL nella costa del Golfo del Messico (Golfo d’America per Trump).

L’export di GNL per gli USA rappresenta la soluzione ideale per aggirare il problema della sovrapproduzione e dunque della riduzione dei profitti di vendita. Alle popolazioni europee resta invece il drastico amento dei costi e l’indebitamento pubblico causato dalle disinvolte politiche di approvvigionamento energetico dei propri governi.

MA PERCHÉ RAVENNA?
A questo punto dobbiamo fare un passo indietro e dallo scenario internazionale tornare un attimo alla dimensione locale. Perché si è scelta proprio Ravenna per l’impianto di rigassificazione?
Ravenna è stata individuata come zona idonea sia per la sua posizione di porto sul Mar Adriatico, in un territorio come quello dell’Emilia-Romagna ricco di collegamenti marittimi, viari, ferroviari e infrastrutturali, sia perché da tempo sono presenti in loco alcuni progetti che fanno della città un centro nevralgico della produzione di energia a livello nazionale e non solo.

La città, col suo porto che rientra in uno dei 5 corridoi di trasporto trans-europei TEN-T7, è un importante snodo della logistica per i mercati non solo italiani. La città è attraversata da un’importante arteria come la SS16 Adriatica ed è collegata al sistema autostradale tramite la tangenziale che la connette alla A14 Bologna-Taranto. Quest’ultima è una delle direttive principali italiane: il Ministero dei Trasporti, insieme a Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna e Società Autostrade, ha approvato l’ampliamento del sistema autostradale e tangenziale bolognese, il cosiddetto Passante di Bologna, che passerà così dalle attuali 12 a un totale di 18 corsie.
Da Ravenna dovrebbe passare anche l’autostrada E55 “Nuova Romea Commerciale” Orte-Mestre di cui si parla da tempo, per sostituire l’attuale statale Romea, e che si andrebbe a collegare alla superstrada Tiberina-E45 e all’asse viario dai Lidi ferraresi fino a Ferrara e poi nel modenese (il progetto dell’autostrada Cispadana) collegandosi alla A22 (Autostrada del Brennero).

Queste arterie viarie, assieme a quelle ferroviarie e alle aree produttive considerate strategiche, saranno ricomprese in quella che viene indicata come “Zona logistica semplificata dell’Emilia-Romagna” (ZLS), un progetto economico-istituzionale finanziato coi fondi del Pnrr, approvato dall’Assemblea regionale il 2 febbraio 2022 e da un decreto dell’11 ottobre 2024 del governo Meloni, che vede il Porto di Ravenna come baricentro dell’intera rete. L’obiettivo è quello di mettere in comunicazione il sistema di trasporto merci della regione attraverso lo sviluppo delle infrastrutture esistenti e quelle di prossima realizzazione, agevolando così gli interessi e gli appetiti imprenditoriali. Con un’estensione di circa 4500 ettari, la ZLS connetterà il porto ravennate con gli 11 nodi intermodali (da Ravenna a Piacenza) e le 25 aree produttive delle 9 province della regione, che potranno godere di un sistema fiscale agevolato, incentivi economici e semplificazioni amministrative. Inoltre il porto della città, attraverso la tratta di navigazione sottocosta che da Portogaribaldi (FE) arriva a Ravenna, è considerato il terminal fluviomarittimo sud del sistema delle idrovie padano-venete.

L’importanza del porto è tale che nel 2026 entrerà in operatività il nuovo terminal crociere a Porto Corsini da 10mila metri quadrati, progetto sviluppato da Ravenna Civitas Cruise Port Srl (RCCP) e Royal Caribbean Group (società statunitense numero 2 al mondo nel settore crocieristico), assieme alla genovese Rina Consulting e agli architetti milanesi di Atelier(s) Alfonso Femia. Il nuovo terminal crociere potrà ospitare contemporaneamente due meganavi per turisti dal portafoglio gonfio, e si stima che in termini di passeggeri la movimentazione passerà da 330mila del 2023 ai 400mila nel 2026 (gli studi di settore indicano che un passeggero sbarcante spenda in media 385 dollari). La società concessionaria RCCP ha stipulato con l’autorità portuale un accordo della durata di 33 anni per la costruzione e gestione del terminal crociere. RCCP è controllata da una società – la Cruise Terminals Internationals (CTI), che sviluppa e gestisce infrastrutture portuali in tutto il mondo – a sua volta partecipata da Royal Caribbean, assieme al fondo di investimenti inglese Icon Infrastructure, che in anni recenti ha acquisito l’impianto sciistico di Sestriere e le piste di Bardonecchia. I finanziamenti per i lavori (35 milioni di euro), che saranno eseguiti materialmente da una cooperativa ravennate, la Ar.Co. Lavori, sono concessi da un istituto di credito austriaco, KommunalKredit Austria, per mezzo della Banca Finanziaria Internazionale di Treviso. L’Autorità Portuale spenderà altri 10 milioni per il cosiddetto “Parco delle Dune”, per i collegamenti ciclabili e pedonali a servizio del terminal crociere.

Sempre a Porto Corsini ha sede la centrale Enel che è inglobata in quello che è uno dei petrolchimici più grandi d’Italia.
Davanti alle coste ravennati l’ecosistema marino è già compromesso dalle concessioni pluri-annuali per le trivellazioni di voraci multinazionali estrattive come Eni, per cercare giacimenti e idrocarburi. Dopo l’approvazione del cosiddetto “Decreto Ambiente” nel dicembre 2024, che per rilanciare le trivellazioni marine consente di perforare i fondali anche a meno di 12 miglia dalla costa portando il limite a 9 miglia, molte autorizzazioni per trivellare prima pendenti saranno sbloccate, ignorando completamente il fenomeno della subsidenza che vede lo sprofondamento delle coste adriatiche. Lo stesso “Decreto Ambiente” ha sbloccato anche i progetti considerati di “preminente interesse strategico nazionale” (progetti dal valore di oltre 25 milioni di euro), tra i quali il governo Meloni ha fatto rientrare gli impianti di stoccaggio, cattura e trasporto di anidride carbonica, velocizzando e semplificando le procedure per le autorizzazioni e le valutazioni di impatto ambientale.

E proprio a Ravenna Eni, caposcuola dell’estrattivismo tricolore, in città fin dagli anni ‘50 – l’insediamento a Ravenna fu fortemente voluto dal fondatore Enrico Mattei per la vicinanza alla materia prima, cioè il metano dei giacimenti marini – ha in progetto la costruzione del sito più grande al mondo per lo stoccaggio sotterraneo di CO2: il progetto Callisto-Ravenna CCS, condiviso assieme a Snam.
E’ il primo progetto di questo tipo in Italia e prevede, per la Fase 1, di captare almeno il 90% della CO2 prodotta dalla centrale Eni di trattamento del gas di Casalborsetti – stimata in circa 25.000 tonnellate l’anno – e trasportarla fino alla piattaforma offshore Porto Corsini Mare Ovest, per poi depositarla in un giacimento di gas esaurito a 3.000 metri di profondità. La Fase 1 è incominciata a fine 2024. Nei prossimi anni, con l’avvio della fase 2, Ravenna CCS prevede di stoccare fino a 4 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030, ma con la possibilità di raggiungere addirittura i 16 milioni di tonnellate grazie ai giacimenti di gas esauriti. Nascondere nel sottosuolo la Co2 significa nascondere il problema e continuare a produrre inquinamento ancora più di prima.

Nel porto di Ravenna, lungo il canale Candiano, esiste già un deposito GNL per il trattamento del gas liquefatto, entrato in funzione nell’ottobre 2021, di proprietà dell’azienda Depositi Italiani Gnl (partecipata al 51% dal Gruppo PIR, al 30% da Edison e al 19% da Enagàs tramite la controllata Scale Gas). L’impianto ha una capacità di 20.000 metri cubi e una movimentazione annua di oltre 1 milione di metri cubi per il rifornimento di navi e camion. Il deposito, che è costato 100 milioni di euro, riceve il GNL tramite navi dai terminali di Enagàs nel Meditterraneo, fra cui uno che sorge nel porto di Barcellona. L’azienda vorrebbe realizzare un ulteriore impianto di vaporizzazione per immettere il gas nella rete nazionale, per via della bassa richiesta di GNL dato che la maggioranza delle navi esistenti non sono predisposte per essere alimentate col GNL.
Anche nella non troppo lontana Pesaro dovrebbe sorgere un impianto per la liquefazione e distribuzione di GNL da 50 milioni di euro e con una capacità di 146.000 tonnellate l’anno, nell’area della Fox Petroli, nel quartiere Tombaccia, a due passi da case e scuole. Anche questo progetto, che ha ricevuto la VIA positiva del ministero dell’Ambiente a gennaio 2025 sebbene l’insediamento sia previsto in una zona alluvionale del fiume Foglia classificata a massimo rischio idraulico, è previsto dai fondi del Pnrr. Impianti di questo tipo generano ossidi di azoto, particolato e sostanze volatili durante le operazioni di raffreddamento del gas. A Pesaro inoltre più di sessanta residenti sono stati colpiti dagli espropri legati al metanodotto Snam, previsto per collegare la rete gas all’impianto della Fox Petroli.

Dato che non ci si fa mancare niente, le coste ravennati (cosi come quelle riminesi) sono gravate dai progetti per la realizzazione dei più grandi parchi eolici off-shore d’Italia. Quello di Ravenna, composto da turbine alte 170 metri con rotori dal diametro di 260 metri, dovrebbe sorgere a circa 22 km dalla costa di Lido di Dante ed è in fase autorizzativa. Fa parte del progetto AGNES, nato da una collaborazione di Agnes Holding Srl, QINT’X e Saipem e destinatario di fondi del Pnrr, che in tutto prevede l’installazione di 75 turbine offshore e impianti fotovoltaici galleggianti. Collegato a questo progetto c’è anche la realizzazione di un elettrolizzatore per produrre idrogeno che verrà installato nell’area portuale, in prossimità delle condotte che dovranno collegare il nuovo rigassificatore alla rete Snam. Per velocizzare la pratica del progetto AGNES l’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna aveva fatto approvare un’apposita risoluzione, voluta dal PD, che adottava la stessa procedura straordinaria che ha consentito l’autorizzazione del rigassificatore in soli 120 giorni.

A Ravenna l’interdipendenza storica tra politica e affari, e tra politica e imprese, è stato sempre indissolubile. E non è un caso se il Comune di Ravenna con l’ex sindaco, Michele De Pascale del PD, ora diventato neo presidente della Regione Emilia-Romagna, è da sempre favorevole al rigassificatore e all’obiettivo di Ravenna «hub del gas». I politici legati al PD hanno addirittura pensato di presentare il progetto della rigassificazione come sostenibile e legato alla decarbonizzazione e alla transizione energetica.
Occorrerà ricordare che il PD è il primo partito della Regione da decenni, quindi anche il primo responsabile del consumo di suolo, che posiziona la regione al quarto posto a livello nazionale, fattore che ha amplificato gli effetti delle passate alluvioni. La città di Ravenna detiene il primato di consumo di suolo a livello regionale.

Che tutta questa carne al fuoco su Ravenna alimenti voraci aspettative economico-imprenditoriali non è un segreto. Non a caso nella città romagnola si tiene ogni due anni l’incontro internazionale OMC Med Energy Conference and Exhibition, organizzato al Pala De André e dedicato alle aziende nel settore energetico che operano nel Meditterraneo. Col pretesto di parlare di decarbonizzazione, sostenibilità, transizione e innovazione tecnologica periodicamente questo meeting porta nella città romagnola i massimi esponenti dell’estrattivismo oil&gas e della devastazione della terra, tra cui Shell, Eni, Saipem, Baker Hughes, Rosetti Marino, Total Energies e – scontata presenza – Snam. Tutti questi figurano come sponsor dell’iniziativa ma Snam risulta essere, assieme ad Eni, lo sponsor principale. L’edizione 2025, che si è tenuta dal 8 al 10 aprile, ha visto 370 espositori da 26 paesi diversi e la presenza di imprenditori di alto livello, milionari, top manager, petrolieri, finanzieri, ingegneri, ministri e politici di Stati che si affacciano sul Meditterraneo. Era naturalmente presente Cassa Depositi e Prestiti.

Vale la pena ricordare che per la costruzione delle opere collegate al rigassificatore sono stati assegnati contratti per un valore di 300 milioni di euro. Solamente la manutenzione e l’esercizio del rigassificatore si tradurranno ogni anno in ulteriori 30 milioni di euro di ordini e commesse.
Le ditte che si sono aggiudicate l’appalto per l’installazione del rigassificatore sono la Rosetti Marino Spa, in associazione con Saipem (mandataria) e la Micoperi, entrambe società ravennati. La Rosetti Marino si è occupata del lato ingegneristico, l’approvvigionamento dei materiali, i lavori di costruzione e la consegna della piattaforma di ormeggio per la BW Singapore e per le navi gasiere in arrivo a Ravenna. Micoperi invece – nota per il recupero della Costa Concordia – si è occupata in particolare dell’installazione delle strutture metalliche che congiungono la nave alla piattaforma costruita dalla Rosetti Marino. Saipem assieme a Micoperi anche della realizzazione dei gasdotti a mare e a terra.
Micoperi è una società che opera in diverse parti del mondo, tra cui il Messico e il centro America, ma anche Africa occidentale e Mediterraneo, che si occupa di installazione, manutenzione e decomissioning di piattaforme, e della costruzione di tubazioni sottomarine per il trasporto di gas e petrolio per clienti del calibro di Eni, Saipem, Snam ed altri. Tra le ultime commesse ve n’è una in Congo per Eni, che riguarda l’installazione di un gasdotto sottomarino lungo 60 km, e altre per complessivi 400 milioni di euro.

La Rosetti Marino, che compare anche tra gli sponsor della OMC Med Energy Conference and Exhibition, è un gruppo che lavora da tempo nel campo della progettazione e costruzione di impianti offshore e onshore per l’oil&gas e l’eolico, non solo in Italia ma a livello internazionale, con partecipazioni in aziende in diversi paesi dell’Africa e del Medio Oriente; ma anche in Europa la sua presenza non è trascurabile, per esempio si è aggiudicata la realizzazione di parte dei lavori per le strutture di fondazione del parco eolico offshore Nordseecluster di RWE, da installare a nord dell’isola tedesca di Juist nel Mare del Nord.
Dai lavori per il rigassificatore di Ravenna e il parco eolico tedesco la Rosetti Marino ha ricavato oltre 150 milioni di euro. Presidente della Rosetti Marino è Stefano Silvestroni, uomo di Confindustria, che è anche presidente dell’Associazione Ravennate Contrattisti Off-shore di Ravenna (ROCA) con associate una quarantina di aziende del settore.

Nel passato il gruppo realizzava i suoi profitti soprattutto dalla cantieristica navale (rimorchiatori e yacht di lusso) ma poi, annusando che le commesse legate al mercato dell’energia e del gas erano in aumento, ha venduto i cantieri navali per concentrarsi su quel settore. Oggi i suoi profitti provengono quasi del tutto dalle commesse legate al settore energia. Tanto per dire, nel 2021 ha stretto un accordo con Nuovo Pignone, controllata dal gruppo statunitense Baker Hughes, uno dei più grandi al mondo nel campo dei servizi petroliferi, presente in oltre 90 Paesi, per la realizzazione di impianti di CCS, ovvero di cattura e stoccaggio di anidride carbonica. É un’azienda, la Rossetti Marino, che non disdegna nemmeno di fare affari con i supposti “nemici” dell’Europa dato che ha beneficiato di commesse della russa Lukoil anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina e nel marzo 2023 ha portato a termine la cessione di un cantiere navale nel porto San Vitale alla Ferretti Group di Forlì, controllata dall’impresa statale cinese Weichai. Cessione che gli è valsa 80 milioni di euro.

Anche dal bilancio 2024 di Snam, che pure detiene significative quote di altri terminal di rigassificazione italiani, nonché la piena proprietà di quelli di Panigaglia e Piombino, risulta che gran parte degli investimenti del gruppo, pari a 2,8 miliardi, si sono concentrati su Ravenna e zona limitrofa alla Romagna. Progetti tutti legati al rigassificatore, alla Linea Adriatica e all’impianto di stoccaggio della CO2. Senz’altro quest’aspetto rivela l’importanza strategica a livello nazionale di Ravenna.
Che questa sia una città strategica nei piani energetici italiani ed europei è confermato dalle parole di StefanoVenier, amministratore delegato di Snam: “Ravenna è un approdo ideale, non solo perché ospita sul suo territorio un distretto industriale di eccellenza specializzato nel settore energetico, ma anche per la sua posizione strategica capace di attrarre i flussi di gas in arrivo dall’area del Mediterraneo orientale e non solo”.

IL RUOLO DI SNAM E IL PIANO MATTEI
È la volta di dare uno sguardo a Snam, che è il primo operatore europeo nelle infrastrutture per il trasporto del gas e che con il controllo di GNL Italia SpA è anche il principale operatore nazionale della rigassificazione del gas naturale liquefatto (GNL). La società, che punta sempre più ad internazionalizzarsi, sta puntando molto sull’estero.
Assieme ad Enagàs e Fluxys nel 2018 ha acquisito il 66% della società greca Desfa, e quindi anche il controllo del terminal di Revithoussa per l’importazione di GNL statunitense. Questa operazione si situava nel solco delle privatizzazioni imposte alla Grecia dalle politiche di “sostegno” della troika (BCE, FMI e Commissione europea) dopo la crisi economica.
Cassa Depositi e Prestiti, società per azioni a controllo pubblico, il cui capitale è costituito dal denaro postale versato dai risparmiatori italiani, con la sua controllata CDP Reti SpA gestisce circa un terzo delle partecipazioni di Snam. Per cui alla fine sono anche i cittadini italiani, anche se contrari, a contribuire con i loro risparmi ai progetti economici, energetici, geo-politici e bellici che l’Unione Europea sta approntando.

Val la pena ricordare che Snam è anche azionista al 20% di TAP (Trans Adriatic Pipeline) che serve per trasportare su suolo italiano, per l’esattezza a Melendugno (Lecce), il gas dei giacimenti del Mar Caspio in arrivo dall’Azerbaigian. Il governo italiano prevede che il gas in arrivo tramite il TAP sia sempre di più, grazie al suo previsto raddoppio. Un progetto che è parte del piano neocoloniale del governo Meloni, il cosiddetto Piano Mattei per l’Africa e il Meditterraneo, che sulle orme del precedente governo di Mario Draghi prevede di far diventare la penisola italiana un grande hub energetico per mezzo dei flussi di gas in arrivo dall’Africa e dalla regione transcaucasica. Dopo gli accordi già stretti da Eni in Algeria, Congo, Nigeria, Egitto, Libia ed Etiopia alla presenza di Giorgia Meloni o di esponenti del suo governo, che prevedono l’estrazione dai giacimenti locali di gas da parte della società italiana e il successivo acquisto delle forniture di gas in cambio della promessa da parte dei governi africani di impedire la partenza di migranti verso l’Italia, gli accordi con l’Azerbaigian sono infatti centrali per il Piano Mattei.

IL TAP E L’AZERBAIGIAN
Il TAP inizia in prossimità di Kipoi, al confine tra Grecia e Turchia, attraversa Grecia settentrionale, Albania e Mar Adriatico fino ad arrivare sul litorale salentino a Melendugno, in Puglia, dove si connette alla rete italiana di trasporto del gas e poi al gasdotto Transmed, fino a Minerbio (BO).
La capacità del Tap è al momento di circa 10 miliardi di metri cubi l’anno. Nel futuro il governo italiano vuole aumentarne gradualmente la capacità, raddoppiandola fino a 20 miliardi di metri cubi entro il 2027. Ma già nel corso del 2024 le importazioni dall’Azerbaigian sono aumentate a fronte della diminuzione di quelle dalla Libia (che arrivano col GreenStream a Gela), dall’Algeria (Mazzara del Vallo) e dal Nord Europa (in arrivo col Transitgas al Passo Gries, al confine con la Svizzera)8.
Assieme alla quota di GNL in arrivo dagli Stati Uniti, anche il gas azero che passa per il TAP fa parte delle strategie che l’Europa ha in mente per garantire alle sue imprese, alla sue infrastrutture di trasporto e alle sue strutture militari l’approvvigionamento energetico di cui necessitano. Lo dimostra il fatto che a luglio 2022 la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, era volata nella capitale Baku per firmare col governo azero un memorandum d’intesa sul raddoppio del “Corridoio meridionale del gas”.

La cosa che va fatta notare è che l’Azerbaigian da anni è in pessimi rapporti di vicinato con l’Armenia per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, nel Caucaso meridionale. Nell’intera regione la Federazione Russa ha una forte influenza. Fino a pochi anni fa la Russia aveva privilegiato i rapporti con l’Armenia mentre l’Azerbaigian ha potuto contare sul sostegno della Turchia. Nonostante l’appoggio agli armeni, i russi sono però riusciti a mantenere buone relazioni anche con il governo azero per non intaccare i rapporti commerciali esistenti tra i due paesi, tra cui ovviamente c’è anche l’acquisto del gas che l’Azerbaigian importa in parte proprio dalla Russia. Insomma, alla fine chiusa una porta la Russia rispunta dalla finestra.

IL GAS DI EGITTO, CIPRO E ISRAELE (E IL RUOLO DELL’ENI)
Un altro Paese che ambisce a diventare hub energetico dell’intero Meditterraneo è l’Egitto, secondo produttore africano di gas naturale dopo l’Algeria. In una posizione privilegiata per l’accesso al Canale di Suez, in buoni rapporti con l’amministrazione statunitense e collegato ad Israele, Giordania e Siria tramite gasdotti già esistenti, l’Egitto è infatti anche un attore di primo piano nella liquefazione e vendita di GNL.
Anche qui gli aspetti energetici sono collegati con quelli militari. A giugno 2022 la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, ha firmato un memorandum d’intesa tra Egitto, UE e Israele per agevolare l’aumento delle esportazioni di GNL verso l’Europa. Il gas israeliano arriva in Egitto tramite un gasdotto che lo collega ad Israele, il gasdotto Ashkelon – Al-Arish, alla cui realizzazione ha contribuito – guardacaso – anche l’italiana Snam, che ne è diventata socia nel 2021 con il 25% delle quote. In Egitto il gas israeliano viene successivamente liquefatto nei due impianti esistenti, a Idku (a est di Alessandria, gestito da Shell) e nella città portuale di Damietta (gestito da Eni) e poi trasportato via mare. Ma in conseguenza degli attacchi degli Huti yemeniti ai convogli marittimi, legato al massacro in corso a Gaza dall’ottobre 2023, il numero di metaniere GNL transitanti per il Mar Rosso era drasticamente diminuito. Le operazioni militari nel Meditterraneo da parte dei paesi della Nato sono diventate perciò determinanti per i mercati occidentali. Anche l’Italia ha grossi interessi da salvaguardare: dal canale di Suez transita il 40 per cento del Made in Italy, in particolare il 16 per cento delle esportazioni di olio di oliva e il 14% del pomodoro lavorato, per un valore di 6 miliardi di euro annui secondo Coldiretti. Inoltre nel 2022 l’Egitto è stato il nono fornitore nazionale di gas naturale e addirittura il quarto di GNL.

Da notare che a differenza di Algeria e Libia, l’Egitto non è collegato all’Italia per mezzo di gasdotti, e quindi il traffico marittimo è essenziale, e questo è un altro dei motivi della partecipazione dell’Italia alle operazioni militari nel Mar Rosso dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 di Hamas e la brutale risposta di Israele, che ad oggi ha comportato più di 50.000 morti e la distruzione di buona parte della Striscia di Gaza.

Per ovviare alla mancanza di un gasdotto che collega Egitto ed Europa, vi è da tempo il proposito di costruire l’EastMed-Poseidon, un mega-gasdotto per collegare i giacimenti del bacino del Meditterraneo del Levante (Cipro, Israele ed Egitto) ai mercati europei, tramite la Grecia e l’Italia: 1.900 km di tubi sottomarini per collegare il Levante con la Grecia e altri 216 km per collegare la Grecia all’Italia, con arrivo ad Otranto, in Puglia. Il progetto è supportato dalle autorità israeliane ed egiziane e da diversi soggetti europei anche italiani e permetterebbe all’Italia di importare ogni anno almeno 10 miliardi di metri cubi di gas, con la possibilità di estenderli a 20 miliardi.

Nel Mediterraneo orientale, a nord dell’Egitto, a sud di Cipro e ad ovest della Palestina, ci sono infatti alcuni dei giacimenti di gas più grandi mai scoperti: quelli egiziani, quelli controllati da Israele (Leviathan e Tamar), e quello nelle acque cipriote (Aphrodite, scoperto dall’italiana Saipem nel 2013). La zona è inoltre una delle più grandi aree per l’esplorazione.

Anche se attualmente il tratto di gasdotto dalla Grecia all’Italia (il Poseidon) non figura più tra i progetti inclusi tra le infrastrutture energetiche di interesse comunitario, l’Europa ha incluso tra queste l’EstMed, ovvero il tratto che porta il gas dal Levante fino ad Alexandroupolis, in Grecia, città collegata ad un sistema di gasdotti gestiti dall’operatore greco Desfa, controllato al 66% da un consorzio guidato da Snam. I gasdotti di Alexandroupolis portano il gas a Grecia, Bulgaria, Romania, macedonia del Nord, Serbia, Moldavia, Ungheria, Slovacchia ed Ucraina. La città di Alessandropoli (in italiano) è un vero hub per l’Europa sudorientale e centrale, dove tra l’altro ad ottobre 2024 è anche entrato in funzione il rigassificatore dell’azienda Gastrade, collegato alla rete dei citati gasdotti e di cui Desfa possiede una quota del 20%. Il rigassificatore greco immette il gas anche nel Tran Adriatic Pipeline (TAP) che arriva in Puglia. Tutto ciò fa della Grecia un importante snodo nelle strategie energetiche della UE.

Il progetto dell’EstMed non è gradito però alla Turchia, che mira anch’essa a concorrere come hub del gas nella regione, con i suoi undici gasdotti collegati all’Europa. La Turchia ha una lunga storia di rapporti diplomatici molto tesi con lo Stato cipriota, per via dei giacimenti contesi nelle zone economiche esclusive (ZEE) tra i due Paesi. L’EastMed potrebbe essere insomma una fonte di conflitti in un’area del mondo che non ne ha certo bisogno.

Ritornando ad Eni, dal 2015 la società italiana estrae gas dal giacimento di Zohr in acque egiziane e nel 2018 ha scoperto l’ancor più grande giacimento di Noor nell’area di mare di fronte al Sinai del Nord. Ad ottobre 2023, assieme all’Israeliana Ratio Petroleum ad altre compagnie energetiche9 si è aggiudicata anche diverse licenze dal governo israeliano per l’esplorazione di giacimenti nelle aree marine di fronte alla Striscia di Gaza, che appartengono di fatto alla Palestina. Le licenze di esplorazione hanno durata di tre anni ma possono essere estese fino a 7 anni10.
Già a marzo 2023, durante una conferenza stampa tra il governo italiano presieduto da Giorgia Meloni, e quello israeliano, Netanyahu aveva detto che Israele stava per siglare l’accordo, quando la gara indetta per assegnare l’esplorazione era ancora in corso. Quando dalla fase di esplorazione si passerà a quella estrattiva, Eni potrà guadagnare dalla vendita di gas rubato alle popolazioni palestinesi, mentre Israele guadagnerà dalle royalties pagate da Eni per estrarre. Oggi il governo italiano è tra i più strenui difensori del governo di Israele, che sta commettendo il genocidio in corso a Gaza. Una degli obiettivi di Israele per questo massacro indiscriminato è quello di mettere le mani sui giacimenti che si trovano nelle acque palestinesi. Gli interessi di Eni e dell’Italia affinché ciò avvenga sono evidenti. I legami tra approvvigionamento di energia e guerra non possono essere più chiari.

IL GALSI TRA ALGERIA E SARDEGNA
Un altro progetto fermo da tempo è quello del GALSI, acronimo di Gasdotto Algeria Sardegna Italia, il metanodotto che avrebbe dovuto portare nuovo gas algerino in Europa – circa 8 miliardi di metri cubi l’anno – passando per la Sardegna. Oggi c’è chi, alla luce della guerra in Ucraina e dell’interruzione dei flussi di gas dalla Russia, vorrebbe rilanciarlo. Ricordiamo che questo progetto prevedeva di partire dal porto di Koudiet Draouche, nel nord-est dell’Algeria (stazione di El-Kala) per giungere a Porto Botte, nel comune di Gilba, per poi attraversare tutta la Sardegna fino ad Olbia, con lo sventramento di tutta l’isola (tanto per dire, bisognerebbe superare 300 fiumi e deviarne una cinquantina). Infine ad Olbia sarebbe dovuto partire un metanodotto sottomarino fino alla località toscana di Piombino, dove si sarebbe collegato con la rete nazionale italiana. In tutto 830 km. Anche l’ex presidente francese Sarkozy aveva annunciato il proposito della Francia di collegare la Corsica al gasdotto GALSI. L’accordo tra Algeria ed Italia era stato concluso nel 2009 e la conclusione del progetto, del valore di 3 miliardi di dollari, era prevista per il 2012. Era stato costituito un consorzio composto dall’algerina Sonatrach, Edison, Enel, Sfirs (Regione Sardegna) e Gruppo Hera, a cui in seguito aveva aderito anche Snam. Poi la Regione Sardegna ha abbandonato. Il progetto allo stato attuale risulta fermo ma non è mai stato ufficialmente cancellato. Nell’estate 2024 la Sonatrach, assieme alla conterranea algerina Sonelgaz, hanno sottoscritto un accordo con Eni per rilanciarlo.

IL CONSUMO REALE DI GAS
A questo punto c’è sempre chi, arrivato a questo punto della lettura, obietta: non volete il gas, ma allora volete tornare alle candele? Questo è il frutto della disinformazione che c’è a proposito delle tematiche energetiche. La produzione nazionale italiana di gas si aggira sui 3 miliardi di metri cubi, a fronte delle importazioni che nel 2024 sono state di 61,6 miliardi di metri cubi. Grossomodo quanto il consumo interno lordo, che nello stesso anno è stato di 61,5 metri cubi di gas. Ovvero, consumiamo quanto importiamo. L’Italia è in grado di stoccare circa 12 miliardi di metri cubi di gas, oltre a 4,5 miliardi aggiuntivi che costituiscono la riserva strategica, per un totale di 16,5 miliardi di metri cubi11.

Il vero motivo dell’incremento delle importazioni di gas, che sia quello derivato da rigassificazione o quello che arriva da paesi come quello azero, non è la preoccupazione di dover ovviare al nostro fabbisogno energetico ma semmai quello di aumentare le esportazioni dell’Italia verso gli altri Paesi europei, come già abbiamo rilevato.
Infatti, anche se attualmente l’Italia è uno dei maggiori consumatori di gas in Europa con circa 73 bmc l’anno, il consumo di gas metano in Italia è comunque diminuito negli ultimi anni rispetto ai picchi di consumo registrati negli anni 90 e nei primi 2000, sia per la fluttuazione dei costi che rendono il gas non vantaggioso rispetto ad altre fonti, ma anche per l’aumento delle quote di energia prodotta dalle cosiddette fonti alternative.

Anche per quanto riguarda il settore del GNL, se è vero che gli investimenti in questo campo stanno aumentando, è anche vero che i rigassificatori europei – per esempio quelli italiani – spesso viaggiano al 50% delle loro possibilità. In Europa si incentivano infrastrutture in eccesso per espandere i profitti delle compagnie, senza dare uno sguardo a quella che è la domanda presente e (soprattutto) futura. Lo squilibrio tra domanda e offerta potrebbe in futuro addirittura causare un abbassamento del prezzo che per gli esportatori di GNL significherebbe profitti più bassi del previsto, cosa che potrebbe generare persino una bolla finanziaria e dissesti societari.

LA DOMANDA DI ENERGIA
Il vero problema è la domanda di energia che cresce sempre di più invece di diminuire, come sarebbe necessario. I presupposti stessi del sistema capitalista si basano su un’iperbole di crescita infinita, a livello economico, industriale e tecnologico. Cementificazione e produzione industriale di massa, spesso di merce di veloce deperimento, hanno un impatto energetico e quindi ecologico devastante, solo per citare alcuni dei molteplici aspetti che rendono impossibile in un mondo così organizzato (e imposto) un decremento del fabbisogno globale. Ma ora la domanda di energia sta crescendo ad un ritmo vertiginoso, in un modo mai visto prima, con gli investimenti pubblici e privati che si stanno concentrando in produzioni energivore come il comparto hi-tech, il digitale, la robotica, i data center, l’automazione, la domotica, l’industria militare e l’aerospaziale.

Che l’uso di combustibili fossili stia distruggendo la possibilità di vita su questo pianeta è sotto gli occhi di molti, almeno di quanti vogliano guardare. L’innalzamento delle temperature dei mari e degli oceani negli ultimi anni ha comportato diversi disastri, che per evitare di guardare alle cause chiamiamo “naturali”. La Romagna con quattro alluvioni in 2 anni ha imparato cosa significa alterazione del clima. La pretesa onnipotenza dell’attività umana sul resto del vivente si sta dimostrando effimera, oltre che suicida. L’antropocene non segna il nostro acme come specie ma può segnare la nostra caduta.

Detto questo, la salvezza non potrà venire d’incanto da quella che viene chiamata transizione energetica, ovvero dall’uso di apparenti tecnologie “sostenibili” o dal ritorno del nucleare, come il governo italiano vorrebbe. L’approvazione di un disegno di legge da parte del governo Meloni con cui è stata creata una società pubblica composta da Enel, Ansaldo Enegia e Leonardo, che dovrebbe costruire i nuovi reattori raffreddati a piombo liquido a cominciare dal 2030, collaborando con la multinazionale europea Newcleo, sono un esempio di scellerata volontà di continuare sulla stessa strada suicida. La salvezza non verrà da queste tecnologie, non solo per le evidenti implicazioni di natura specificatamente tecnica (le terre rare che servono per le tecnologie alternative sono fonte di conflitti; le pericolosissime scorie nucleari rimangono attive migliaia di anni e quando non servono per produrre armi nucleari sono impossibili da smaltire; in caso di conflitto bellico i reattori possono diventare un bersaglio militare; incidenti come quelli occorsi a Cernobyl e Fukushima potrebbero causare una catastrofe radioattiva con durata pluriannuale) ma anche perché la vera questione è un’altra. Perché produrre sempre più energia?

Perchè produrre più energia? Per alimentare il sistema capitalista e l’insana produzione di merci sempre più inutili e scadenti – obsolescenza programmata, la chiamano – che in seguito si trasformeranno in oceani di rifiuti? Per continuare ad alimentare le infrastrutture di guerra e le industrie di armi che nutrono incessantemente i conflitti nel mondo e poi produrre altri strumenti di morte una volta svuotati i depositi, in un ciclo vizioso apparentemente senza fine?
Se vogliamo sopravvivere su questo pianeta dobbiamo produrre meno merci, consumare meno energia, depredare meno la terra e interrompere la catena delle guerre che gli Stati e i padroni forgiano incessantemente anche in tempo di supposta pace proprio per conquistare merci, energia e risorse naturali. Non saremo in grado di farlo, però, fino a che i governi schiavi delle multinazionali, delle compagnie energetiche e dell’industria militare detteranno la loro legge.

IL RUOLO DEGLI STATI NAZIONALI
I governi occidentali sono in piena crisi di legittimità. Parte della popolazione non si fida più delle promesse dei politici, giustamente. Mentre l’Unione Europea si appresta a spendere 800 miliardi di euro per il suo riarmo attraverso il “ReArm EU Plan” e i gestori energetici e le aziende belliche quotate in borsa come Leonardo vedono volare i loro superprofitti, l’impoverimento generale causato dall’indebitamento pubblico e dai tagli a sanità e spesa sociale per finanziare le grandi opere, i rigassificatori e l’acquisto di armi – e dunque le future guerre – sta generando inevitabilmente insoddisfazione che potrebbe esplodere in forme conflittuali.
Si trovano i soldi per le armi, non si trovano mai per la messa in sicurezza dei territori colpiti dalle alluvioni e dai terremoti e per i danni subiti dalle popolazioni. Non un euro è giunto, per fare un esempio, degli 1,2 miliardi del Pnrr promessi da Von Der Leyen e struttura commissariale per le persone alluvionate dell’Emilia-Romagna.
In uno scenario del genere anche le scelte in materia energetica dei governi – come l’acquisto a prezzo maggiorato del GNL statunitense – potrebbero essere suscettibili di contestazione, perché giudicate responsabili degli aumenti di prezzi e bollette.

Questa possibilità è stata attentamente vagliata dal governo. Nel decreto-legge sicurezza (ma sarebbe più consono chiamarlo decreto repressione) approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 aprile 2025, e che ha assorbito il Ddl ex 1660, oltre alle maggiori tutele e poteri per le forze di polizia e i servizi segreti e ad una repressione sfrenata contro chi protesta, per esempio inasprendo il reato per il blocco stradale, è stata prevista un’apposita aggravante per i reati commessi partecipando alle mobilitazioni contro “infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi”, come possono essere appunto il Tav, il Ponte sullo Stretto e impianti energetici come i rigassificatori, gli impianti per il trattamento di GNL e i gasdotti, ma anche le centrali nucleari.
La stessa cosa accade in altri Paesi europei, dove ormai manifestare contro le fonti fossili, contro la guerra o per la Palestina è sempre più difficile. Ordine poliziesco e opzione militare, guerra interna e guerra esterna, sono sempre più connessi. In questa fase storica lo Stato sta rinunciando molto velocemente ai travestimenti democratici, abolendo le residue e presunte forme di tutela sociale, per accentuare il suo ruolo di poliziotto, di guardia privata e di secondino, a maggiore garanzia degli interessi dei mercati e degli accordi delle compagnie private.

Non sarà un caso se a Marina di Ravenna il 29 novembre 2024 il prefetto ha tenuto un’esercitazione, con tanto di carabinieri, polizia, guardia di finanza, reparto operativo aeronavale, capitaneria di porto, vigili del fuoco e 118, all’interno e all’esterno degli impianti di Eni per testare la risposta ad un fantomatico rischio di attacco da parte di manifestanti ambientalisti che irrompevano nello stabilimento per prendere in ostaggio i dipendenti Eni. Una esercitazione eseguita in maniera identica a Gela il 6 novembre.
Lo scenario, spiegava il comunicato della Prefettura di Ravenna, era quello di una manifestazione pacifica “nel corso della quale subentra una frangia di infiltrati ostili che eludendo la vigilanza privata hanno fatto irruzione nel centro direzionale; alcuni si sono arrampicati su un traliccio affiggendo striscioni e rifiutandosi di scendere; altri invece si sono barricati all’interno di una palazzina dove hanno preso in ostaggio alcuni dipendenti per sabotare gli impianti”. Ovviamente i “buoni” alla fine sono riusciti a catturare i “cattivi”. Che queste esercitazioni rientrassero nelle prove per criminalizzare il dissenso e restringere la libertà di manifestazione, in vista dell’approvazione della nuova legge repressiva – l’ex DDL 1660, poi trasformato dal governo Meloni in decreto-legge per velocizzare la sua approvazione – non ne dubitiamo.

IL RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA
I piani europei di riarmo (ReArm EU) e quelli per l’approvvigionamento e la transizione energetica (RePower EU), dal gas al nucleare ma che non tralasciano le stesse rinnovabili, rispondono alle medesime logiche del complesso militar-industriale e viaggiano sostanzialmente sullo stesso binario.
Le guerre sono un affare, ma anche un consumo. La produzione di carri armati, cacciabombardieri, droni, fregate, etc, è affamatissima di energia.
Il sistema capitalista mondiale si impegna nella guerra, alla ricerca di un nuovo equilibrio per superare la crisi dell’unipolarismo statunitense emerso dal vecchio bipolarismo dell’epoca della Guerra Fredda. La volontà di riarmo dell’Unione Europa è una manifestazione degli interessi dominanti e si traduce in cospicui guadagni per la classe capitalista.

L’intenzione da parte degli Stati Uniti, manifestata dal secondo Governo Trump12, di alleggerire la propria presenza militare in Europa per concentrarsi su scenari geopolitici considerati più strategici, come l’Asia e il Pacifico, e la ripresa della guerra commerciale tra le potenze imperialiste, hanno generato nell’Unione Europea la corsa al riarmo. La spesa militare è destinata a salire vertiginosamente. La presidentessa della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, ha presentato il “ReArm Ue” plan da 800 miliardi di euro, che il parlamento europeo ha approvato a marzo del 2025 e ribattezzato “Readiness 2023”, ovvero Preparati per il 2030. Desiderosa di competere a livello globale con Stati Uniti, Russia e Cina, la UE corre a riarmarsi, svincolandosi dal patto di stabilità previsto per altri capitoli di spesa, come welfare e sanità, attraverso l’emissione di nuovo debito pubblico.

Le industrie del comparto bellico si stanno attrezzando per soddisfare la crescente domanda di carri armati, jet, missili, munizioni, droni, etc. Gli investitori internazionali corrono a comprare i titoli azionari delle maggiori industrie belliche europee, che stanno balzando alle stelle. Le tedesche Rheinmetall, ThyssenKrupp Marine Systems e Hensoldt, le francesi Thales, Safran, Dassault, Airbus, Naval Group, la franco-tedesca KNDS, le italiane Leonardo, Fincantieri, Iveco, Avio, la svedese Saab, le britanniche Bae Systems e Rolls Royce: queste aziende stanno scommettendo sulla guerra e stanno facendo soldi a palate13.
La spesa a livello globale nel settore della Difesa nel 2024 ha toccato un nuovo record, arrivando a sfiorare i 2.500 miliardi di dollari14. Una cifra otto volte maggiore di quanto stanziato alla Cop 29 di baku per il contrasto al cambiamento climatico. Il giro di affari ha generato 615 miliardi di euro per i bilanci delle maggiori aziende belliche. Ricavi destinata a salire nel 2025, addirittura c’è chi parla di un +12%15.

La giustificazione dell’Unione Europea per il riarmo è sempre quella: dobbiamo difenderci dalla Russia. Ma forse il motivo non dobbiamo cercarlo ad est ma a sud. Infatti anche il governo russo, proprio come l’Unione Europea, guarda con sempre più interesse ai mercati africani, per mantenere attivo e possibilmente espandere il proprio business. La penetrazione dei capitali russi in Africa non datano dal conflitto con l’Ucraina ma sicuramente dopo le sanzioni europee e statunitensi questa capacità di penetrazione si è espansa. Una dimostrazione è stata l’accordo tra il governo militare del Mali e la famigerata compagnia di mercenari russi Wagner, in supporto alle forze armate locali nella lotta contro i ribelli jihadisti nel nord del Paese, parallelamente alla decisione di Emmanuel Macron di ridimensionare il supporto francese garantito a Bamako nel contesto dell’Operazione Barkhane, lanciata nel 2013 allo scopo di contrastare la crescita dei gruppi islamisti nella regione del Sahel. Contemporaneamente Mosca ha firmato ricchi accordi per lo sfruttamento dei giacimenti minerari del Mali.
Nel novembre 2024 anche il governo del Ciad ha chiesto la fine della cooperazione militare con la Francia, che ha portato al ritiro di 1.000 soldati presenti nel Paese. Diverse ex colonie francesi, Mali, Niger, Repubblica centrafricana e Burkina Faso, tutti Paesi interessati negli ultimi anni da colpi di Stato, avevano precedentemente sollecitato Parigi a ritirare le sue forze militari. Questi Paesi hanno poi stretto accordi commerciali e militari con la Federazione Russa. Russia e Bielorussia continuano ad espandere la propria influenza e presenza militare anche nella Cirenaica libica, per mezzo degli appoggi dati al generale dell’Esercito nazionale libico (ENL), Khalifa Haftar. La Russia, perso un alleato strategico in Siria con la caduta di Assad per mezzo dei ribelli islamisti, sta spostando il baricen-tro delle alleanze in Nord Africa e nel Sahel,
Russia, Cina, Europa, Stati Uniti guardano all’Africa come a un proprio dominio, da costellare di basi e di compagnie private e statali, e non tollerano concorrenza. L’Africa, ancora una volta, come è stato durante le due guerre mondiali, diventa terreno di conquista, di influenza e di disputa armata da parte delle potenze imperiali. È una vecchia storia di colonialismo. Oggi guardiamo all’Ucraina e all’Europa orientale, oppure al contesto MedioOrientale. Ma dovremmo stare attenti anche a quello che succede in Africa, perché un conflitto internazionale potrebbe essere causato dalla disputa sulle risorse di quel continente. Il “secolo africano” potrebbe aprirsi con una nuova guerra mondiale.

Se questi sono gli orizzonti, capiamo bene il perché del riarmo europeo, nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati e la spartizione delle risorse, in un quadro che ha visto mutare gli assetti geopolitici globali. Si cerca di abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto e cioè che in guerra ci siamo già, anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case.

E mentre gli Stati europei, dai Paesi scandinavi alla Francia, forniscono ai loro cittadini i dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra nucleare, e molte nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare, già si sta affermando l’idea che anche le aziende in crisi, specie nel settore dell’auto, debbano essere riconvertite alla produzione bellica16. Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso.

A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, i nomi sono sempre quelli: Famiglia Agnelli (Stellantis), Volkswagen, ThyssenKrupp.
Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di lavoro.

REARM EUROPE
Facciamo due conti. Con lo stanziamento dei 500 milioni di euro della legge ASAP per sostenere la produzione di munizionamento, i 300 milioni del programma EDIPRA per gli appalti congiunti, e i contributi per 1,2 miliardi del Fondo europeo per la Difesa (FED) che sostiene progetti industriali nel periodo 2021-2027 con una dotazione complessiva di 7,3 miliardi, il contributo della UE al comparto bellico ammonta già a 2 miliardi di euro, a cui si vanno ad aggiungere gli 800 miliardi di euro promessi dal piano “RearmEu”/Preparati per il 2030 della Von Der Leyen, di cui 150 miliardi finanziati dal bilancio della UE attraverso il fondo SAFE col meccanismo del debito comune (eurobond o simili, Banca europea per gli investimenti, etc) e gli altri 650 miliardi ancora da recuperare attraverso prestiti privati ai singoli Stati membri (da parte di finanziarie, banche e investitori17).

Ma il governo della Germania da solo ha recentemente varato un piano da 500 miliardi di euro, che può arrivare a 1.000 in 12 anni, come misura per sostenere la sua industria degli armamenti e rendere così il Paese nuovamente una grande potenza militare. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, leader della Cdu, si è fatto approvare la riforma costituzionale che gli consente di sfondare il debito. La Germania ha dunque disponibile da subito risorse fresche, alla faccia dell’austerity sbandierata in tutti questi anni.

L’Italia nel corso del 2025 dovrebbe invece spendere circa 32 miliardi negli armamenti secondo il Milex, l’osservatorio sulle spese militari italiane18. Una cifra, che segna un costante aumento delle spese italiane nel comparto militare19, che non contempla comunque i fondi del nuovo strumento SAFE della UE a cui l’Italia può attingere per il suo riarmo e che potrebbero valere altri 20 miliardi.

Il piano di riarmo “RearmEu”/Preparati per il 2030 e il connesso Libro bianco sulla difesa europea, che delinea il nuovo approccio dell’Unione, rappresentano la strategia della Commissione europea per consentire agli Stati membri di aumentare la loro spesa militare, investendo massicciamente nella difesa. Gli investimenti nel settore militare potranno sforare le regole di bilancio per mezzo dell’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità, che consente agli Stati membri di sforare il tetto del deficit per il 1,5% in più del Pil annuo, per una durata di quattro anni, e così aggirare i limiti previsti per la spesa in deficit, ovvero quando si utilizzano più risorse di quelle che si ricavano dalle entrate statali. La spesa in deficit è un meccanismo che consente di pagare gli acquisti in un secondo momento, attraverso la concessione di prestiti e piani di pagamento differito. La clausola di sospensione del Patto di stabilità, con l’aggiramento del contenimento del deficit al 3% del Pil e del debito al 60%, era stata prevista dalla UE nel caso in cui si verifichi un evento eccezionale con una grave recessione economica, ed era stata applicata nel marzo 2020 per far fronte alla conseguenze economiche della pandemia di covid. Ora questa clausola viene prevista per trovare sui mercati i famosi 650 miliardi mancanti del piano ReArmEu. Più deficit non sanzionato dalla Commissione europea, in sostanza.

Il SAFE (Security Action For Europe) invece è il nuovo strumento europeo per concedere prestiti garantiti dal bilancio UE, dotato di un fondo di 150 miliardi di euro a cui gli Stati membri possono attingere, da raccogliere ricorrendo all’emissione di obbligazioni comuni (eurobond o altri titoli di debito simili) ovviamente con il risultato di un aumento del debito comune europeo ovvero il debito condiviso da tutti i Paesi membri. L’obiettivo di questo strumento finanziario è quello di promuovere grandi agglomerati societari, attraverso un aumento degli appalti collaborativi con dei progetti industriali da finanziare.

In più la UE intende modificare le regole di funzionamento della Banca europea per gli investimenti (BEI) che al momento non può effettuare prestiti per la produzione bellica ma solo per progetti dual use (civile e militare). Inoltre vuole dirottare verso l’industria degli armamenti anche i fondi di coesione per lo sviluppo delle aree povere. Ultima mossa della UE è quella di accelerare l’iter dell’Unione dei mercati capitali, per assicurare che i risparmi degli europei vengano investiti all’interno del blocco europeo e reindirizzati verso il comparto delle armi. Un piano, che comprende la rimozione delle barriere tra Paesi europei per la circolazione dei capitali e la spinta all’Unione bancaria, per incanalare quel 70% (10.000 miliardi) dei risparmi privati detenuti sotto forma di depositi bancari e postali che non vengono investiti in strumenti del mercato e quindi considerati “improduttivi”.

Lo spostamento di risorse pubbliche dalle tasche dei cittadini alle tasche dei proprietari privati delle aziende belliche, con il pretesto del sostegno all’Ucraina e della “minaccia russa”20, comporterà naturalmente, attraverso i meccanismi ben noti della spesa in deficit e del debito comune, una situazione di bilancio negativo e quindi l’aumento dell’indebitamento pubblico. Insomma, un disastro finanziario che è facile prevedere verrà ripianato in parte con nuove tasse, aumenti delle accise su gasolio e benzina, incremento dell’IVA e ulteriori tagli alla spesa sociale.

INTERCONNESSIONI
In un momento storico in cui il ricorso alla guerra riveste un ruolo centrale, non solo per la ridefinizione dei rapporti internazionali e delle sfere di influenza, ma anche come metodo per pompare soldi pubblici nel sistema economico capitalista gonfiando così i Pil degli Stati attraverso una spesa pubblica che sostiene il comparto militar-industriale e i settori di produzione in crisi (come quello dell’auto ma non solo), la produzione di energia è sia strategicamente che economicamente correlata a queste politiche. Se approvvigionamento di energia, produzione militar-industriale, distruzione dell’ambiente e guerra sono aspetti dello stesso problema, allora anche le lotte devono essere collegate e rese interdipendenti. Chi non coglie le interconnessioni tra estrattivismo, distruzione dei territori, politiche energetiche e industriali, capitalismo e guerra, offre il fianco a posizioni ambientaliste ipocrite, superficiali e che volontariamente cercano di non criticare mai le cause strutturali che stanno dietro agli effetti più visibili.

Non si creda che quando si parla di comparto bellico si faccia riferimento solo a munizioni, esplosivi, carrarmati e veicoli corazzati. La guerra moderna necessita anche di droni, data center per l’immagazzinamento e l’elaborazione dati, nanotecnologie e scienze dei materiali, intelligenza artificiale, software, sistemi digitali e informatici, microchip, tecnologie spaziali e geo-satellitari, cyber-security…
Tutte tecnologie la cui produzione necessita altissimi costi economici ed energetici, oltre che l’esigenza di assicurarsi terre rare e minerali senza i quali non è possibile produrli (in pratica si fa la guerra per accaparrarsi le risorse per fare la guerra, in un ciclo senza fine). Difatti il Libro bianco sulla difesa europea prevede di “accelerare la trasformazione della difesa attraverso innovazioni dirompenti come l’IA e la tecnologia quantistica”.

Non si può essere ecologisti e limitare la critica a una singola opera nociva, o essere allo stesso tempo supporter della guerra, come chi il 15 marzo 2025 a Roma e in altre città italiane ha partecipato alla manifestazione lanciata da Michele Serra e da “Repubblica” a favore di un’Europa potenza armata da schierare in contrapposizione agli altri poli imperialisti per la spartizione del mondo. Il mito dell’Europa come patria delle libertà, unica depositaria della pace, della democrazia e della fratellanza è una favoletta rispolverata oggi per la propaganda guerresca. Una favoletta oltretutto razzista. Quello che i libri a scuola ci hanno evidentemente insegnato troppo poco è che la storia europea è disseminata di guerre di conquista, saccheggio di risorse, regimi fascisti, colonialismo, suprematismo bianco. Storia efferata che per buona parte continua ancora oggi.

Di quale Europa parliamo quando la evochiamo? Forse di quella “fortezza Europa” che si appresta ad approvare norme ancora più disumane contro le persone immigrate che cercano di mettere la maggior distanza possibile tra loro e le guerre, la miseria sociale e la crisi climatica che le compagnie pubbliche e private di casa nostra hanno provocato nei loro Paesi?
Parliamo forse di quell’Europa che lascia annegare nel Mediterraneo le persone che parlano un’altra lingua, che le deporta in paesi terzi dove vengono torturate, che le schiaffa in lager amministrativi per mesi se non per anni? Sarà forse quella del nuovo Patto UE su migrazione e asilo, proposto dalla Commissione europea e approvato nell’aprile 2024 dal Parlamento europeo, che prevede un nuovo sistema europeo per i rimpatri e che aspetta l’adozione da parte dei singoli Stati membri, che lo devono adottare entro giugno 2026? Un piano infame che include la registrazione digitale obbligatoria di tutte le persone che arrivano alle frontiere esterne della UE, l’emissione di un ordine europeo di rimpatrio, il riconoscimento reciproco degli ordini di rimpatrio da parte dei Paesi membri, la possibilità giuridica di deportazioni in un Paese terzo e l’estensione del trattenimento nei CPR fino a 24 mesi, rispetto agli attuali 18 mesi.

Da tempo le politiche e le retoriche contro l’immigrazione hanno assunto una dimensione centrale nel dibattito pubblico. Le politiche razziste dell’Unione Europea, ridisegnate dal clima di guerra attuale, si stanno trasformando in un sistema di disumanizzazione e pulizia etnica, alimentando le forme di nazionalismo e delocalizzando gli strumenti di repressione e annientamento, come i lager per migranti, in paesi terzi con cui esistono già degli accordi. Da questo punto di vista l’Italia ha fatto scuola, prima con il finanziamento delle milizie libiche e poi con l’accordo per istituire i centri detentivi in Albania.

Quella che viene indicata come crisi climatica, prima responsabile assieme alla guerre e alla miseria economica delle migrazioni, dovuta principalmente all’attività umana – o per meglio dire all’attività degli Stati e del capitalismo – è uno dei problemi più importanti del nostro tempo. In diverse aree del mondo le montagne vengono sventrate, le foreste disboscate, le risorse naturali saccheggiate, i fondali trivellati, gli spazi privatizzati, le campagne inaridite o cementate, i fiumi e le fonti avvelenati irrimediabilmente, l’aria contaminata e gli oceani surriscaldati.
Il green washing è una pratica diffusa: i progetti ecocidi oggi ottengono il via libera in nome del progresso “verde”. Così passano come progetti eco-sostenibili, pigliando pure finanziamenti e sponsorizzazioni. Contro questo modello di sviluppo mortifero, che devasta ed uccide intere regioni del mondo, è urgente dare nuove possibilità alle proposte di una vita equa, solidale, ecologica, rispettosa nei confronti della terra e delle specie animali e, dunque, in totale contrasto col mondo del profitto e degli affari, degli Stati e delle frontiere. Una vita che si raccolga attorno al metodo libertario dell’autorganizzazione, dell’autogestione e del rispetto reciproco. E che si realizzi nella lotta.

Non si può credere, infatti, che per ostacolare i progetti di morte – che siano legati alla guerra o alle nocività del capitalismo – si possa far ricorso agli stessi strumenti legali offerti dallo Stato. Ce lo insegnano anche alcune vicende recenti. Il 9 gennaio 2025 il Tribunale delle imprese di Roma ha dichiarato inammissibile il ricorso di 104 persone attiviste No Ponte che si erano opposte al riavvio delle procedure per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, condannandole alle spese processuali, nell’ordine di circa 348mila euro. Il Tribunale di Gela il 20 marzo 2025 ha invece chiuso un lungo iter processuale che, partito dalle denunce di cittadini, proprietari terrieri e associazioni ambientaliste, coinvolgeva manager e operatori di alcune società del gruppo Eni. Il processo riguardava il disastro ambientale con annessa contaminazione ambientale e della falda acquifera derivato dall’attività della raffineria di Gela. Assoluzione perché il fatto non sussiste. Il Tribunale di Gela aveva già assolto i dirigenti Eni in una lunga serie di processi. Citiamo per ultimo il caso del Tar della Toscana che a gennaio 2024 ha dato il suo via libera al rigassificatore di Piombino, e condannato alle spese legali sia l’amministrazione comunale piombinese (90mila euro) che Usb, Wwf e Greenpeace (15mila euro) colpevoli di aver sostenuto i ricorsi contro l’opera. Prova evidente che non ci si può attendere nulla dalle soluzioni miracolose che arrivano dall’alto. È un dato lampante l’esistenza di rapporti di sudditanza verso i poteri economici delle istituzioni statali.
Solo lottando la prospettiva può cambiare.

In un presente segnato da massacri e genocidi che si stanno compiendo sotto i nostri occhi – pensiamo solo a quello in corso a Gaza, commesso per mezzo delle armi che transitano anche nel porto di Ravenna21 – non può esserci ecologismo possibile senza antimilitarismo e anticapitalismo.
La nostra unica salvezza è fare fronte comune contro i progetti dei governi e delle compagnie private, che sia un rigassificatore, un impianto nucleare, una legge repressiva, come l’idea di trascinarci in una guerra che potenzialmente può annientarci.

“Solo el pueblo salva el pueblo” era lo slogan in uso tra gli anarchici e le anarchiche durante la rivoluzione spagnola. Lo abbiamo sentito risuonare in occasione dell’alluvione di Valencia, quando i politici accorsi sul luogo della tragedia per la loro squallida passerella elettorale sono stati cacciati a male parole, lanci di fango e pietrate. Impariamolo, questo slogan, e cominciamo ad usarlo anche da noi.

Ci salveremo lottando o non ci salveremo.

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PICCOLI FUOCHI VAGABONDI

APRILE 2025