Pubblichiamo un contributo davvero interessante di un amico che vive nel territorio romagnolo, utile per capire le profonde modificazioni geomorfologiche di natura antropica subite da questo contesto geografico nel corso degli anni, a beneficio soprattutto dell’impresa agro-industriale e zootecnica che lucra sullo sfruttamento degli animali non-umani (a cui aggiungeremmo la turistificazione del litorale). Modificazioni antropiche a cui immancabilmente sono legati i fenomeni più evidenti di quelli che sono descritti come “disastri naturali”.
Con una precisazione: “La responsabilità di questa concatenazione di eventi si può sicuramente ricondurre alle politiche che hanno per decenni governato questi territori ma nemmeno si può completamente ignorare la partecipazione di ognun* di noi che abbiamo banchettato sulla distruzione di questo territorio per costruirci i nostri privilegi”.
Un sistema che fa acqua da tutte le parti
Se proviamo ad approfondire le ragioni all’origine delle tre alluvioni accadute in Romagna tra il maggio 2023 e il settembre 2024 veniamo sommersi da una grande quantità di pareri unanimi: l’atmosfera terrestre e i mari, in particolare il Mar Mediterraneo, si stanno scaldando e ciò causa un accumulo di umidità e di energia nell’aria. Il risultato ovvio sono eventi atmosferici più frequenti e di maggiore intensità.
L’alluvione del 2023 (anche se dovremmo parlare delle alluvioni dato che si trattò di due eventi distinti a distanza di una decina di giorni) era considerata, dati storici alla mano, un evento con una ripetizione calcolata in centinaia di anni ma già durante l’emergenza si sentivano voci autorevoli ripetere che questi indici di frequenza erano calcolati sulla base della temperatura atmosferica del secolo scorso e quindi non affidabili nelle mutate condizioni odierne.
Mentre le acque ricoprivano migliaia di ettari di città, paesi e campagne, e le note di “Romagna Mia” risuonavano scandite dallo strisciare dei badili, ci si riempiva tutt* la bocca di proclami di resistenza, di elogi della fibra forte della popolazione romagnola e dello spirito solidale e resiliente di tutto questo territorio. Oggi, con ancora le stesse case e campagne invase dal fango questa retorica è ancora presente ma accompagnata da un evidente borbottio di indignazione e rabbia nei confronti delle amministrazioni territoriali e statali che “non hanno fatto nulla per evitarlo”.
Vorrei ora osare un ragionamento differente rispetto a quelli che fino ad ora ho sperimentato ed ascoltato. Vorrei interpretare questa presunta resilienza della popolazione romagnola in un’ottica di rapporto con il territorio che vada un po’ al di là della colpevolizzazione delle istituzioni.
L’estate scorsa era diffuso il senso di abbandono e la disillusione verso gli aiuti pubblici ma parallelamente si sentivano copiosi i “ce la faremo” e i “ripartiremo/ricostruiremo”. E forse guardando in faccia la realtà sta proprio qui il problema. Se resistere a questi fenomeni significa cercare il modo di mantenere tutte le abitudini che abbiamo avuto fino a questo momento forse questa “scorza dura” dei popoli romagnoli, questo intrinseco attaccamento alla terra (coltivata o edificata) non dovremmo considerarlo come una caratteristica utile o positiva. Forse è proprio il tempo di lasciar andare, di ritirarsi, di mettere in discussione le certezze monolitiche costruite sui nostri suoli argillosi.
Facciamo qualche passo indietro…
La Romagna come territorio agricolo e turistico è un concetto estremamente recente. Possiamo datarla qualche decennio se consideriamo le attività industriali o qualche secolo se proprio vogliamo fare un discorso più storico.
Siamo abituati a misurare tutto con il metro delle attività e dei tempi umani ma se c’è una scienza che non si può adattare a queste unità di misura è la geologia.
E in questo discorso la geologia è una protagonista fondamentale.
Qual è la storia geologica di questo territorio? Da dove arriva e dove va la Pianura Padana? Cosa sono i torrenti e i canali che attraversano questa regione?
La Pianura Padana è una cosiddetta pianura alluvionale, creata cioè dai residui trasportati dalle acque del Po nella loro millenaria corsa verso il mare. E questa corsa, che a volte è un placido cammino, è cambiata molto per percorso e lunghezza nei millenni passati. Per un tempo a noi difficilmente percepibile il Po e i suoi affluenti hanno plasmato il territorio, depositando detriti sui fondali del mare e delle paludi creando banchi di sabbia che poi sono diventati macchia e poi evoluti in boschi e a volte nuovamente invasi dalle acque e risorti ancora. La linea costiera si è spostata di centinaia di chilometri e insieme ad essa si sono allungati e allargati i corsi dei fiumi.
Se pensiamo a come sono fatti i fiumi di oggi abbiamo un’idea estremamente distorta della loro vera natura, proviamo a pensarci: dalla sorgente il fiume si incanala in una valle e la percorre in discesa fino alla pianura, quando però le montagne e le colline si abbassano fino a scomparire un nuovo elemento appare a loro sostituzione. E infatti ogni torrente della Romagna scorre, quando non più avvolto dai pendii scoscesi dell’Appennino, accompagnato da ampi terrapieni artificiali. Nessuno di questi terrapieni è più vecchio di un secolo o due e quindi, in un passato relativamente recente l’intero territorio doveva essere fondamentalmente diverso. Si perché quando un torrente non è costretto tra argini artificiali, nei momenti di piena allaga le terre circostanti. e se queste terre sono basse, l’acqua lì rimane per settimane o mesi o, in alcuni casi, per decenni o secoli continuamente alimentata dalle acque del fiume. Queste piene invaderanno le terre basse non solo con le loro acque ma anche con i detriti terrosi e organici mescolati in esse e, piena dopo piena, questi detriti andranno depositandosi fino a sollevare parti del territorio oltre il livello medio delle acque.
Le paludi romagnole hanno ostacolato e in alcuni casi protetto le attività umane per millenni, basti pensare alla storia della città di Ravenna, costruita in queste terre proprio per sfruttare la difesa naturale del territorio paludoso che la circondava. Ma vastissime zone della Pianura Padana sono state stagionalmente ricoperte dall’acqua nei secoli passati. Immaginiamoci quindi un territorio fatto di boschi igrofili con ampie aree allagate per diversi mesi all’anno, difficilmente frequentabile o attraversabile per l’uomo e che così è rimasto fino a quando non si è intervenuti artificialmente per modificarne la natura.
Alcune isole nelle vastissime paludi padane sono state utilizzate dall’uomo fin da epoche antiche (le città di Venezia e Ravenna non sono che gli esempi più noti) ma al di là di questi pochi spazi asciutti si estendevano pantani e lagune per decine di chilometri. Dobbiamo quindi immaginare un territorio estremamente soggetto alle mutazioni che era solo stagionalmente asciutto o allagato e che aveva qua e là zone stabilmente emerse soggette solo alle piene eccezionali.
Queste terre al di sopra del livello medio di piena, ad un certo punto della storia umana sono diventate insufficienti a soddisfare le necessità agricole delle popolazioni locali che si sono quindi adoperate per affinare le conoscenze e le tecniche necessarie alla bonifica.
La principale tecnica antica utilizzata per bonificare ampie zone di territorio era un sistema basato sull’osservazione dei fenomeni naturali. Si creavano aree arginate nelle zone dove solitamente si espandevano le piene e si contenevano queste acque limacciose al loro interno anno dopo anno. I detriti portati dalle piene alzavano progressivamente il suolo e si riusciva così a sottrarre in modo perpetuo delle porzioni di territorio agli allagamenti stagionali.
Questo sistema ha il grande vantaggio di alzare il livello dei terreni ma lo svantaggio di essere estremamente lento. Occorrono infatti molti anni per raggiungere un livello che sia stabilmente asciutto.
Con l’avvento dell’industrializzazione si è utilizzato un diverso e più efficiente sistema: arginare i torrenti e pompare via le acque delle zone allagate. In tempi molto più brevi si sono così bonificati immensi territori e risolto il problema degli allagamenti stagionali.
Questo è quindi diventato l’aspetto normale delle terre romagnole, “la bassa” come viene normalmente chiamata.
Se osservassimo il territorio romagnolo in sezione in diversi momenti dell’anno vedremmo che i fiumi, quando sono carichi d’acqua scorrono parecchi metri al di sopra del piano medio della campagna. Inevitabilmente, se gli argini cedono o le acque li oltrepassano, il territorio circostante rimane allagato per lungo tempo prima che l’acqua possa nuovamente defluire all’interno dell’alveo.
In Romagna coltiviamo e viviamo dei territori che sono appena sopra il livello del mare (e neppure tutti!) e nonostante questo abbiamo permesso ai fiumi di scorrere a pieno carico all’interno di argini alti oltre 10 metri.
Questo sistema ha funzionato abbastanza bene fino a che queste opere sono state dimensionate all’intensità dei fenomeni abituali ma ora che siamo costretti a fronteggiare una nuova normalità fatta di precipitazioni improvvise e prolungate l’intero sistema fa letteralmente acqua da tutte le parti.
Ma dato che siamo nell’ambito delle riflessioni storiche vorrei dirigermi verso le ragioni che ci hanno spinto ad una modifica così profonda di questo territorio. In Romagna ci raccontano fin da piccini che le paludi sono state bonificate per contrastare la malaria e questa parte della storia (sicuramente vera) appaga la nostra curiosità al punto che non ci rendiamo più conto di cosa c’è oggi nel nostro paesaggio al posto degli acquitrini. Una delle caratteristiche più evidenti della bassa romagnola (sconvolgente se la paragoniamo ad altre pianure europee) è la totale mancanza di boschi o spazi selvatici. Le uniche aree di vegetazione spontanea erano, fino a pochi mesi fa, le aree golenali dei fiumi.
Dove fino a uno o due secoli fa c’erano foreste allagate, stagni e boschi ripariali oggi troviamo campi coltivati, strade, ferrovie, paesi e zone industriali.
Vorrei soffermare l’attenzione sui primi, i campi, per capire di preciso perché ci occorre questa enorme quantità di terreno. La stragrande maggioranza dei terreni coltivati nella pianura romagnola possono essere classificati in due tipologie: i frutteti e le coltivazioni erbacee. Tra queste ultime, solo una minima parte è costituita da ortaggi e altri vegetali per il consumo umano mentre la stragrande maggioranza dei terreni è adibita a cereali, leguminose e girasoli.
Mais, sorgo, favino, erba medica, piselli, soia, grano e orzo, girasole, si estendono a perdita d’occhio nella pianura romagnola ma la loro presenza è legata a stretto giro con un altro elemento tipico della pianura padana: gli allevamenti intensivi di mucche, maiali e pollame.
La destinazione principale di queste colture è infatti l’industria dei mangimi zootecnici. Sostanzialmente, la principale ragione per cui abbiamo stravolto l’aspetto della regione è per foraggiare (letteralmente) il sistema di produzione alimentare più inefficiente e eticamente problematico della storia della civilizzazione umana. Nutrire degli animali, fatti nascere appositamente per diventare cibo, con enormi quantità di quello che potrebbe tranquillamente essere già cibo per gli umani è di per sé un cortocircuito logico non da poco, se poi aggiungiamo che per allevarli, oltre a sprecare una immensa quantità di acqua e rilasciare in atmosfera enormi quantità di gas serra, questi animali vengono anche condannati ad una vita di torture intollerabili c’è davvero da chiedersi come sia possibile essere arrivati a questo punto.
Questa evidente assurdità risulta però perfettamente compatibile con il sistema di gestione sociale dell’Europa capitalista: non importa l’effetto delle nostre azioni sugli individui finché queste azioni producono crescita economica o profitto.
Non è mai stato messo in discussione il modello di crescita ad ogni costo né la totale assenza di prospettive a lungo termine per le popolazioni che vivono su questi territori. Anzi, la popolazione stessa è stata in gran parte resa partecipe di questa corsa al benessere individuale costruito sulle spalle delle identità marginalizzate, degli animali allevati, delle popolazioni selvatiche e dell’intero ecosistema.
Di pari passo con la distruzione sistematica dell’ecosistema si è costruita una identità popolare che raffigura la popolazione romagnola come un successo sociale. Da regione povera e malsana popolata di braccianti affamati ad esempio di progresso turistico, industriale e agrario portatore di quei valori “sani” di efficienza ed equità.
Ma quanto sono ampi i confini di questo mondo delle favole? Fino dove arriva il benessere romagnolo? Chi ne beneficia e chi ne è escluso?
I “poveri contadini” oggi diventati latifondisti, i bravi artigiani che hanno creato grandi aziende manifatturiere, i piccoli ristoratori che oggi possiedono grandi alberghi e stabilimenti balneari, gli imprenditori illuminati che hanno creato i colossi della chimica. E dall’altra parte, i nuovi braccianti agricoli che esistono nella nostra società solo in funzione della loro forza muscolare impiegata nei campi, senza diritti, spesso costretti alla marginalizzazione totale e ad una vita di privazioni con la spada di Damocle di un permesso di soggiorno in scadenza. I/le lavorator* sfruttat* per “farsi la gavetta che come loro l’abbiamo fatta tutti”; i tanti individui animali scacciati dai loro territori generazione dopo generazione e infine costretti in riserve circondate da strade, ferrovie e zone industriali; le infinite schiere di corpi uguali, ammassate nelle strutture zootecniche, smembrate, confezionate e vendute in tempo per la prossima grigliata del 25 aprile.
La responsabilità di questa concatenazione di eventi si può sicuramente ricondurre alle politiche che hanno per decenni governato questi territori ma nemmeno si può completamente ignorare la partecipazione di ognun* di noi che abbiamo banchettato sulla distruzione di questo territorio per costruirci i nostri privilegi.
Ora che iniziamo ad osservare terrorizzat* le conseguenze inarginabili del nostro benessere non possiamo cercare alibi o puntare il dito verso il politico di turno. Né possiamo battere i piedi chiedendo grandi opere salvifiche che ci permettano di continuare indistrubat* con il nostro stile di vita. Non possiamo farlo perché quello a cui assistiamo non è un semplice fastidio, non è un inconveniente o un fenomeno eccezionale; è il trailer del film che abbiamo girato per le prossime generazioni, è il frutto inevitabile delle nostre azioni illogiche.
Dopo che per decenni abbiamo tentato di ignorare gli appelli sul cambiamento climatico e sulle responsabilità del nostro stile di vita rispetto a questo fenomeno, ora, quello che prima era un borbottio di sottofondo di scenziat* e attivist* irrompe nella nostra quotidianità con lo scrosciare della pioggia e il ruggire della piena. Per quante volte ancora riusciremo a spalare il fango, alzare gli argini e far finta che non sia successo nulla?