Solidarietà con le persone condannate per l’opposizione all’apertura di una sede fascista a Cesena(*)
Le recenti condanne di quattro persone da parte del tribunale di Forlì, per via delle opposizioni di qualche anno fa all’apertura di una sede di Casapound a Cesena nel gennaio 2018, meritano secondo chi scrive una riflessione. Se non altro perché tali condanne arrivano dopo che a Cesena si sviluppò un’interessante mobilitazione contro quella presenza, espressa mediante un’assemblea aperta, iniziative di piazza e allargandosi poi ad altri campi d’intervento; condanne che arrivano alla fine di una serie di presidi solidali davanti al tribunale in occasione delle varie udienze del processo e con accuse che definire traballanti è davvero un eufemismo.
Parliamoci chiaro fin da subito: il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado – sette mesi di carcere con pena sospesa per una di queste persone e circa 15.000 euro in tutto da dover pagare complessivamente tra multe, rimborsi e risarcimenti – ha voluto condannare quattro antifascist* sulla base di poche o nulle prove. Sono bastate le testimonianze – alcune davvero irrilevanti – di due poliziotti, dei due proprietari del locale affittato ai fascisti e di uno stesso fascio di Casapound.
RIMARCHIAMO QUESTO FATTO non perché credessimo in un’inesistente imparzialità della magistratura, credenza (o credulità) che ci è sempre parsa più che una ingenuità una presa per i fondelli, che consapevolmente o meno dimentica il fattore dei rapporti di forza organici ad una società divisa in classi, ed il ruolo stesso che in tale società riveste la magistratura. Lo rimarchiamo invece perché crediamo sia significativo di un passaggio che ha visto negli ultimi anni il corpus istituzionale giudiziario adeguarsi felicemente al definitivo esaurirsi della discriminante antifascista che aveva dominato – almeno sulla carta, almeno a livello di immagine/simulacro – il campo politico dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo esaurimento è stato indubbiamente agevolato nel tempo, come noto, non solo dal ritrovato protagonismo di gruppuscoli e tink-tank del variegato estremismo di destra che, godendo di ampie protezioni, sono lentamente riusciti a ritagliarsi un posto e ad infiltrare la cultura popolare con i loro discorsi, ma dal ruolo decisamente importante che hanno avuto i saltimbanchi della sinistra parlamentare (inclusa parte di quei settori che oggi si ritrovano extraparlamentari non per loro scelta) i quali hanno adottato sempre più sfacciatamente il linguaggio e i “valori” delle destre, da quelle liberiste e securitarie fino a quelle più reazionarie. Questo resta un fatto che difficilmente qualcuno potrà obiettare, anche se oggi questa stessa sinistra liberista e legalitaria, più comoda nei salotti che nelle piazze a protestare, gioca la carta della difesa – solo ideale, per carità! – dell’antifascismo di facciata e talvolta dei “diritti civili”, dimenticando di farne un tutt’uno con le conquiste sociali e finendo perciò per mettere gli uni in antagonismo alle altre piuttosto che connetterli.
Detto in maniera semplice, la magistratura ha sempre usato il pugno di ferro contro i nemici della classe di cui difende gli interessi, cosa più che ovvia, ma per salvare le apparenze di quel garantismo costituzionale di facciata che uno Stato democratico “nato dalla Resistenza” è costretto ad ostentare nei suoi apparati di sistema, fino a non troppi anni fa la linea era stata quella di andarci piano con i movimenti antifascisti. Ma dato che l’antifascismo, dopo aver servito come legittimazione strumentale ai partiti che si sono spartiti potere e clientele per decenni, è oggi scaricato dagli stessi – salvo essere rispolverato in occasione delle scadenze elettorali! – ecco che la magistratura può finalmente usare la rodata ricetta della vendetta di classe anche sui movimenti antifascisti, più o meno radicali, senza timore di perdere la faccia (anzi, spesso con il plauso dei sedicenti antifascisti salottieri). Si è insomma abbandonato ogni opportunismo prima esistente; con una differenza sostanziale però! Esiste infatti sempre una distinzione operata dalla magistratura per ponderare quella che deve essere la pesantezza della pena: la valutazione, cioè, se l’antifascista o l’antirazzista si sia mosso all’interno delle cosiddette “regole democratiche” – ovvero quelle statali – oppure no. Se, insomma, le persone che si professano antifasciste o antirazziste siano degli appartenenti ad enti ufficiali, partiti od associazioni riconosciute formalmente dallo Stato, con un percorso costellato dall’ossequio alle formalità legali (della serie: chiedere sempre e comunque il permesso), oppure ribelli senza bandiere, che mal si accomodano sulle poltrone del compromesso, incorreggibili di fronte alla legge proprio perché gli preferiscono la responsabilità ben più gravosa ma anche più etica di saper scegliere ciò che ritengono giusto.
L’eccezione a questo schema caratterizzante è comunque possibile, come dimostrano i 13 anni della condanna di Mimmo Lucano per aver provato, da sindaco di Riace, a forzare le norme di legge razziste per permettere a persone immigrate di ottenere i documenti; in questo caso è l’uomo interno alle istituzioni che eccedendo per primo le famose “regole democratiche”, mettendosi perciò fuori dalla legge per perseguire il giusto, diventa di colpo il nemico da colpire implacabilmente, palesando platealmente che per l’autorità le buone intenzioni non hanno attenuanti ma quel che conta davvero è solo il “rispetto delle regole”, giuste o ingiuste che siano.
Ecco, secondo chi scrive la questione è proprio questa! Le 4 condanne del tribunale di Forlì sicuramente sono state indotte anche dal fatto che i proprietari del negozio affittato a Casapound siano due noti e ben inseriti personaggi – l’uno avvocato e l’altro immobiliarista – ma sono condanne che si iscrivono però in un innegabile clima generale che va avanti da diversi anni, e soprattutto contro un certo tipo di antifascismo: quello che contempla l’adesione libera e la partecipazione diretta, senza mediazioni, senza bandiere, senza medaglie da ottenere o cappelli da mettere, che non ha bisogno di rappresentanti ufficiali o di delegare le proprie idee e la propria azione a nessuno, proprio perché agisce quando lo ritiene giusto. Un tipo di antifascismo che si mobilita, spezzando il senso di impotenza e di rassegnazione generale, e che spaventa inoltre chi vorrebbe monopolizzare totalmente il campo della lotta ai vecchi e nuovi fascismi per controllarlo e contenerlo nella sfera e nei limiti delle “regole democratiche” di cui sopra. Quelle stesse “regole democratiche” – sia detto en passant – dimostratesi completamente inefficaci nell’arginare la tracotanza del fascismo, oggi come ieri. L’incapacità e la voluta negligenza degli organismi istituzionalizzati antifascisti e partigiani – ormai da anni stampella del Partito Democratico – nel dire una sola parola su queste condanne parla da sola.
È così che non fa alcuna differenza se le persone condannate siano colpevoli o meno dei reati di cui le si accusa; come non interessa a noi la colpevolezza o l’innocenza di una compagna o di un compagno per esprimergli vicinanza e solidarietà, allo stesso modo oggi basta che si sia partecipato a movimenti antifascisti genuinamente spontanei, dichiaratamente autonomi dalle istituzioni (da tutte le istituzioni!) per rischiare di venire condannati. Perché la vera colpa, che trapela secondo noi copiosamente dalle condanne ricordate, è proprio di non essersi lasciate e lasciati ingabbiare in una sterile rappresentazione, non aver delegato ma anzi aver autogestito direttamente in prima persona la lotta al fascismo, con altre e altri che la pensano in modo simile (che non vuol dire uguale!) ed averne fatto con ciò la propria modalità d’intervento.
Ecco l’inaccettabile crimine per l’autorità: fare a meno di lei e auto-organizzarsi!
E allora sì, di questo crimine siamo tutte e tutti colpevoli!
Piccoli Fuochi Vagabondi
(*) Mercoledì 15 settembre 2021 al Tribunale di Forlì si è tenuta l’udienza definitiva di primo grado, con relativa sentenza, del processo che vedeva imputate 5 persone per diversi reati riguardanti l’opposizione contro l’apertura della sede di Cesena di Casapound aperta in Via Albertini 28/D nel gennaio 2018.
I fatti si riferiscono a delle “pressioni” nei confronti dei proprietari del negozio che sarà poi di fatto affittato al gruppo di estrema destra, e a un volantino che ricordava le complicità di chi concede i propri locali a questi gruppi affisso per Cesena, con indicati nomi e cognomi dei summenzionati proprietari. Dopo diverse udienze il giudice, Ilaria Rosati, ha assolto una di queste cinque persone e condannato le altre quattro. Tre di queste sono state condannate ad una multa di 800 euro a testa per diffamazione, per la diffusione del già detto volantino. Un’altra persona è stata invece condannata a sette mesi di carcere, con pena sospesa, per tentata violenza privata, con l’accusa di avere tentato verbalmente di convincere i proprietari a non affittare il loro negozio al gruppo fascista. Oltre alle condanne, si prevede il pagamento complessivo delle spese legali e processuali e un risarcimento di circa 9.000 euro in totale per i proprietari del negozio, Daniele e Francesco Lombardini, padre e figlio (quest’ultimo avvocato) costituitisi come parte civile, che hanno lamentato un danno di immagine e psicologico, telefonate di persone risentite per la scelta di affittare il negozio a un gruppo di fascisti ed esprimendo il timore di ipotetiche ritorsioni. In tutto si parla dunque di circa 15.000 euro da dover sborsare se in appello la sentenza di condanna dovesse essere confermata.