Il seguente testo si occupa del rapporto tra proletari neri e proletari bianchi nella sollevazione e nelle ribellioni di strada nate dall’assassinio di stato di George Floyd.
Il testo è comparso ad inizio settembre 2020 sul blog Ill Will il 4 settembre, tradotto in italiano dal sito pungolorosso.wordpress.com e dal blog Noi non abbiamo patria.
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di Shemon e Arturo (IW)
Dedicato a tutti i martiri della sollevazione del 2020
Qual’è la prognosi? … La prognosi è nelle mani di coloro che sono disposti a sbarazzarsi delle radici della struttura corrose dai vermi. (Franz Fanon)
Introduzione
L’estate del 2020 è stata un’estate di rivolte di massa. Quella che è iniziata il 26 maggio come una ribellione guidata dai neri a Minneapolis in seguito all’omicidio di George Floyd da parte della polizia, si è rapidamente diffusa in tutto il paese. Questa rivolta è stata iniziata da giovani neri, ma si sono rapidamente unite ad essa persone di tutti i colori e i generi. Questa moltitudine rivoluzionaria ha attaccato gli agenti di polizia, appiccato il fuoco ai dipartimenti di polizia, alle auto della polizia e alle banche, ha saccheggiato e ridistribuito beni e si è vendicata per gli innumerevoli omicidi di neri e non neri da parte della polizia. La prima settimana è stata l’Atto I della sollevazione.
Questa rivolta iniziale è stata inevitabilmente repressa dalla polizia, dai militari, dai vigilantes, dalle ONG e dai politici. Tuttavia, questo processo di decomposizione è stato diseguale: in alcuni luoghi abbiamo iniziato a vedere un processo simultaneo di ricomposizione. La CHAZ (Capitol Hill Autonomous Zone) di Seattle ha tentato di forgiare un mondo in cui non esista più la polizia. Un’altra ribellione è scoppiata sulle strade di Atlanta, in seguito all’omicidio di Rayshard Brooks. A Portland, i militanti hanno combattuto contro gli agenti federali per diverse settimane. Questo è stato l’Atto II.
Poi è venuto l’Atto III. Il 25 luglio è riaffiorato l’abolizionismo rivoluzionario, e si è concretizzato in un’offensiva in solidarietà con la lotta a Portland. Un cantiere per la costruzione di una prigione giovanile a Seattle è stato incendiato, così come un tribunale a Oakland. I tribunali sono stati distrutti a Los Angeles e ad Aurora. Ad Atlanta la gente ha fatto a pezzi le finestre di un ufficio ICE (Immigration and Customs Enforcement) / DHS (Department of Homeland Security). Nei giorni successivi altre marce di solidarietà si sono trasformate rapidamente in rivolte di strada. Nel nordest i dimostranti hanno attaccato le auto della polizia a Filadelfia e a Brooklyn. A Portland i militanti hanno continuato a scontrarsi con gli agenti federali, mettendo sotto assedio il tribunale federale. Poi, il 10 agosto, in risposta ad ulteriori violenze della polizia, carovane di saccheggiatori provenienti da tutta Chicago hanno fatto piazza pulita dei negozi di fascia alta nella parte centrale della città.
Verso la fine di agosto, dopo l’omicidio da parte della polizia di Trayford Pellerin a Lafayette, in Louisiana, e la sparatoria contro Jacob Blake a Kenosha, nel Wisconsin, è iniziato un nuovo round di ribellioni. A Kenosha due manifestanti sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco da un vigilante armato. In seguito, un membro di Patriot Prayer è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da un antifascista – Michael Reinoehl – durante gli scontri di strada a Portland tra i sostenitori di Trump e i manifestanti di Black Lives Matter. Per rappresaglia, Michael Reinoehl è stato assassinato dalla polizia. Così si è concluso l’Atto IV.
Come abbiamo affermato nelle “Tesi sulla ribellione di George Floyd“, queste sollevazioni coincidono con altri movimenti che si sono sviluppati da quando la pandemia ha colpito gli Stati Uniti: un’ondata di scioperi selvaggi nelle “industrie essenziali”; lotte all’interno delle carceri, comprese le prigioni, le carceri e i centri di detenzione per migranti; e un movimento che si batte per la casa. Tuttavia, più di ogni altra forma di lotta, sono state le rivolte di strada le più dirompenti e radicali, e quelle che hanno coinvolto il maggior numero di persone.
L’esperienza di queste lotte è stata diversa da qualsiasi cosa avessimo sperimentato prima. Nei centri nevralgici dell’impero americano, le frazioni più disparate del proletariato si sono unite per attaccare la polizia e assaltare i corridoi commerciali di dozzine di città. Nelle “Tesi” abbiamo sostenuto che l’auto-attività del proletariato nero è la forza trainante di questo processo rivoluzionario. In questo scritto esploriamo invece il ruolo del proletariato bianco in questo processo.
Come l’intera classe lavoratrice degli Stati Uniti, i proletari bianchi sono stati colpiti dalla deindustrializzazione, dall’austerità, dalla crisi finanziaria del 2007/2008, delusi e frustrati dalle presidenze Obama e Trump e ora dal COVID-19. L’altra dinamica chiave è stata la massiccia diffusione di oppiacei e di suicidi, che sta devastando il proletariato bianco da quasi due decenni. È nel contesto di queste crisi che dobbiamo collocare il proletariato bianco contemporaneo.
Piuttosto che uccidersi con la droga, un contingente di proletari bianchi ha sentito il grido di battaglia di Black Lives Matter e si è unito alle ribellioni. Chiunque abbia una conoscenza di base della storia degli Stati Uniti riconosce il significato di questo evento e tutto il potenziale, le contraddizioni e i pericoli che solleva. Non c’è niente di più pericoloso per la borghesia americana di una lotta proletaria multirazziale. E non c’è niente di più pericoloso per la lotta di classe negli Stati Uniti del tradimento del proletariato bianco, che, nel corso della sua storia, ha stretto un’alleanza con il capitale e lo Stato. Mentre le basi materiali di questa alleanza si stanno deteriorando e stanno emergendo crepe, l’essere bianchi [whitness, che in questo contesto significa il senso di superiorità dei bianchi sulle altre “razze”] continua a costituire il collante che tiene assieme la società borghese negli Stati Uniti.
La strada da percorrere è piena di possibilità, ma anche di pericoli mortali. Gli amici possono diventare rapidamente nemici e i nemici di vecchia data possono diventare compagni devoti. Sebbene la storia possa servire da guida, se deve avvenire e avere successo una rivoluzione, dovremo sporgerci verso l’ignoto. Rimanere bloccati negli schemi della storia (passata) significa creare un’altra prigione per noi stessi. La rivolta per George Floyd e le ribellioni che ne sono seguite ci forniscono gli strumenti per abbattere finalmente non solo la prigione del capitalismo razziale, ma anche la prigione della storia.
Reazioni
Il fatto che ci focalizziamo sul proletariato bianco sarà per molti scioccante. Saremo accusati di prestare troppa attenzione ai bianchi. È probabile che reazioni avverse a noi proverranno da tre aree. La prima area è quella dei BIPOC (Black, Indigenous, People of Color) che, per principio, non possono sopportare alcuna discussione sui bianchi poveri e appartenenti alla classe operaia, che considerano un attacco alla loro BIPOCness. Queste persone tendenzialmente fanno parte della classe media BIPOC, e provengono in prevalenza dalle ONG e dai settori accademici.
La seconda reazione arriverà dall’area dei radicali BIPOC preoccupati che le rivolte vengano verniciate di bianco, in specie nelle città a maggioranza bianca come Kenosha, Seattle, Portland e Minneapolis. Questi compagni potrebbero trovarsi a proprio agio con i proletari bianchi nella lotta, avere compagni bianchi della classe operaia e adottare una prospettiva che li includa nel processo rivoluzionario. Ma restano comunque scettici davanti all’idea di focalizzarsi sul proletariato bianco, perché non vogliono perdere di vista il proletariato di colore. Questo è comprensibile. Possiamo solo chiedere ai compagni del BIPOC che hanno queste preoccupazioni di leggere questo testo nella sua interezza, di giudicarlo per ciò che dice e di vedere questo momento come una potenziale rottura con le regole della storia quale è stata fino ad ora. Una discussione seria sul proletariato bianco non toglie nulla al proletariato nero e agli altri proletari.
La terza reazione verrà dai radicali BIPOC che riconoscono il proletariato bianco, ma pensano che esso sia perduto per sempre a causa del razzismo, del colonialismo e dell’imperialismo. Anche questa è una posizione comprensibile in questo paese razzista, e non ha senso cercare di convincere i compagni BIPOC del contrario. È solo attraverso l’esperienza di battersi a fianco dei proletari bianchi che i compagni del BIPOC arriveranno a riconoscere l’errore strategico di averli identificati in blocco con la controrivoluzione.
Pur riconoscendo queste preoccupazioni, crediamo nondimeno che alcune realtà fondamentali debbano essere affrontate. Se la rivoluzione è all’orizzonte, la nostra strategia deve tenere conto dei bianchi. La prima e più ovvia ragione è che essi costituiscono una parte gigantesca della popolazione. Secondo lo US Census, questo paese è per il 60,1% composta da bianchi europei. Rendiamocene conto. Il secondo gruppo più numeroso è quello dei latinos, che costituiscono il 18,5%, seguiti dai neri e dagli afroamericani con il 13,4%. Seguono gli asiatici al 5,9% e gli indigeni all’1,3%. Per quanto l’idea che i bianchi siano immutabilmente razzisti sia comprensibile, rimane però senza risposta il problema di come fare i conti con questo enorme segmento della società – a meno che la risposta non sia quella delle guerre razziali o della balcanizzazione razziale che finirebbero solo per rafforzare il dominio bianco e il genocidio dei neri, degli indigeni e delle altre persone di colore.
Una comprensione offuscata della realtà
C’è una immagine dei lavoratori bianchi diffusa attivamente dai media liberali e conservatori. Ad esempio, si presume che un lavoratore bianco sia uno che ascolta Fox News o Rush Limbaugh, che a loro volta diventano rappresentativi della coscienza della classe operaia bianca più in generale. Allo stesso tempo, sentiamo i media liberali dirci che i bianchi poveri e della classe operaia sono ignoranti, razzisti, misogini e omofobi, argomento di discussione che viene poi ripetuto acriticamente da persone di sinistra di ogni fascia.
Gli strumenti concettuali che ci incoraggiano a vedere i proletari bianchi come fondamentalmente razzisti – privilegio bianco, colonialismo dei coloni, anti-blackness, aristocrazia operaia – sono potenti perché sono radicati nella realtà storica. Ma cosa succede quando i bianchi agiscono in modo rivoluzionario? Siamo in grado di riconoscere quando questi strumenti di analisi non funzionano più e, anzi, offuscano la nostra capacità di vedere cosa sta succedendo? Anche se non dovremmo scartarli del tutto, crediamo che il marxismo nero fornisca altri strumenti per dare senso a questa situazione.
Il marxismo nero si posiziona rispetto ai bianchi in modo strategico. In The Black Jacobins, CLR James ha mostrato come, durante la rivoluzione haitiana, un esercito ribelle di ex schiavi riuscì a mettere le diverse potenze coloniali (europee) l’una contro l’altra, mentre stringeva un’alleanza con i bianchi poveri nella Rivoluzione francese al fine di rovesciare la schiavitù a Santo Domingo. In Black Reconstruction, W.E.B. Dubois ha mostrato come, durante la guerra civile americana, gli schiavi neri abbiano approfittato dell’occupazione del sud da parte dell’esercito americano e del fatto che i soldati bianchi stavano disertando dall’esercito confederato. In A Dying Colonialism, Frantz Fanon ha mostrato come il Fronte di liberazione nazionale (algerino) avesse accolto nelle sue file gli algerini bianchi come militanti che stavano prendendo parte alla lotta contro il colonialismo francese dietro le linee nemiche. L’elenco potrebbe continuare. Il proletariato nero ha bisogno di sviluppare una strategia che includa il proletariato bianco, per sfruttare opportunità simili e conquistare una posizione migliore per sè stesso nella lotta di classe.
L’impegno etico della tradizione radicale nera
Dato l’attuale contesto teorico, non è affatto chiaro come i lavoratori bianchi possano inserirsi in una strategia rivoluzionaria. È diventato un luogo comune vedere i lavoratori bianchi come colonizzatori privilegiati anti-neri e succhiatori di sangue del proletariato globale, generando così un rapporto imbarazzante con la questione della solidarietà. Quando questa analisi arriva al punto di diventare quasi ontologica, allora non è chiaro come il proletariato bianco possa uscire dalla sua complicità con il capitalismo razziale.
Una delle virtù centrali della Tradizione Radicale Nera è la liberazione e l’amore del popolo nero. Ma questa tradizione incoraggia anche l’amore e la liberazione per tutti i popoli. Il capitolo 7 di Black Marxism di Cedric Robinson offre un buon esempio. Qui Robinson sostiene che “raramente i neri hanno usato il livello di violenza richiesto dalla situazoine secondo loro (gli occidentali)”. Poi prosegue ponendo alcune domande molto forti: “Perché Nat Turner [che fu a capo di una ribellione di schiavi avvenuta nel 1831 nella contea di Southampton in Virginia], di sicuro un uomo violento, ha risparmiato i bianchi poveri? Perché Toussaint [detto Touissant Louverture, ex-schiavo che fu la guida della sollevazione rivoluzionaria di Haiti dal 1791 fino ai primi anni dell’800] portò in salvo la famiglia del suo padrone assente prima di unirsi alla rivoluzione degli schiavi? Perché nessuna persona bianca è stata uccisa in una ribellione di schiavi nella Virginia coloniale?” Ricorda al lettore che questi non sono dei semplici aneddoti, ma un modello che si è ripetuto nel corso dei secoli: “Nel 1915 le persone che si unirono a Chilembwe nella rivolta [contro la dominazione coloniale britannica nell’attuale Malawi], misero al sicuro donne e bambini europei dentro gli accampamenti dei coloni”. In tempi più recenti, durante gli scontri tra fascisti e antifascisti, abbiamo assistito a una dinamica simile: i militanti neri hanno salvato alcuni fascisti bianchi dall’essere picchiati a morte per strada. Questo è successo di recente a Londra, ma è già successo negli Stati Uniti. Il nostro intento qui non è sostenere la non violenza, ma piuttosto evidenziare il tipo di profondo impegno etico che, in opposizione alla patologia della razza, si orienta invece alla trasformazione dell’umanità.
Nel suo saggio 1492: A New World View, così come in altri saggi, Sylvia Wynter esamina come le moderne divisioni di razza, genere e nazionalità – formatesi con la colonizzazione delle Americhe, la tratta degli schiavi dell’Atlantico e la globalizzazione del capitalismo – vengano normalizzate e reificate come soggettività. A suo modo di vedere, però, non si tratta né di celebrare queste soggettività né di negarle ma, piuttosto, di abbattere il sistema di potere che le riproduce. Per lei, “lo sconvolgimento generale degli anni ’60 ha reso possibile una nuova apertura” che ha messo in discussione le basi storiche e sociali di questi “sistemi rappresentativi simbolici”. Immaginiamo che, per Wynter, anche le attuali rivolte contribuiscano a realizzare una tale apertura.
Dalla schiavitù alla sollevazione di George Floyd
La borghesia ha compiuto notevoli sforzi per dividere il proletariato in tutti i modi, attraverso barriere di genere, razza, nazionalità, ecc. Negli Stati Uniti la divisione razziale è stata particolarmente forte. Tuttavia la storia della lotta di classe multirazziale è tesa e contraddittoria, ma esiste.
Prima dell’istituzione degli Stati Uniti e del diffuso sviluppo dell’ordine razziale da cui siamo perseguitati oggi, i servi bianchi, insieme agli schiavi africani e indigeni, fuggirono dalle fattorie coloniali e si unirono alle comunità Maroon [comunità di afro-americani fuggiti dalla schiavitù, spesso composte anche di nativi, formatesi a partire dalla metà del 1600 in un vastissimo territorio che va dai Caraibi al Nord e al Sud America, fino ad alcune isole dell’Oceano indiano]. In The Dragon and the Hydra, il prigioniero politico Russell Shoats descrive come “i lavoratori europei a contratto, che erano fuggiti da quella condizione … si allearono sia con gli americani che con gli africani che erano anche loro fuggiti dalla schiavitù e dalla servitù, tutti uniti nelle comunità Maroon in aree che ora fanno parte degli Stati Uniti”. Dopo queste prime forme di solidarietà di classe, le divisioni razziali iniziarono a svilupparsi dopo la ribellione di Bacon nel 1676 [Avvenuta in Virginia contro il regime coloniale britannico, guidata da Nathaniel Bacon, un ricco allevatore che raccolse intorno a se’ anche degli schiavi neri, i quali vennero poi emancipati ]. Questa fu una guerra di classe multirazziale contro l’élite coloniale, ma era anche basata sul colonialismo dei coloni contro i popoli indigeni. In risposta a questa ribellione, l’élite coloniale implementò le leggi che hanno approfondito le divisioni razziali. Le nuove leggi sugli schiavi eliminarono le precedenti vie legali verso la libertà. Il matrimonio interrazziale fu criminalizzato e le leggi successive abolirono il diritto dei neri a votare, ricoprire cariche pubbliche e portare armi. La tratta degli schiavi nell’Atlantico continuò a crescere e, poiché il prezzo di uno schiavo diminuì, furono ridotti in schiavitù più africani che mai. Al tempo della rivoluzione americana, la schiavitù dei neri era diventata un’istituzione diffusa, mentre la servitù a contratto dei bianchi, era al contrario, in declino.
Fu solo con l’ascesa dell’abolizionismo militante e della guerra civile che i bianchi si unirono di nuovo ai neri in una lotta comune. Migliaia di bianchi diedero la vita in un conflitto che alla fine ha portato al rovesciamento della schiavitù. Naturalmente, come in precedenza, questo è stato un processo contraddittorio. Le lettere dei soldati bianchi mostrano che la maggior parte di loro era razzista. Nondimeno, attraverso la loro resistenza, i neri americani hanno trasformato la guerra per l’Unione in una guerra per abolire la schiavitù e, in quel processo, hanno avvicinato il proletariato bianco alla lotta per la libertà e la rivoluzione. Mentre la classe operaia bianca non era necessariamente interessata ad abolire la schiavitù, i lavoratori bianchi hanno svolto un ruolo importante per la fine della schiavitù nel corso della guerra.
Dopo la guerra civile e la sconfitta della ricostruzione, il movimento populista è emerso come un movimento agrario di sinistra che includeva uno strato di agricoltori afroamericani. Anche questo movimento è stato contraddittorio: anche in questo caso la maggior parte dei bianchi coinvolti era razzista. Nondimeno, i contadini e i mezzadri neri si ritagliarono uno spazio all’interno di questo movimento, in particolare nella forma della Coloured Farmers National Alliance and Cooperative Union.
Nel 1900, gli Industrial Workers of the World (IWW) tentarono di creare una relazione con i neri del sud prima di essere, infine, schiacciati. A Filadelfia negli anni ’10 organizzarono un potente sindacato di lavoratori portuali per lo più neri, il Local 8. Successivamente, negli anni ’30, il Partito Comunista fece breccia fra i proletari neri, ma perse rapidamente il rispetto conquistato a causa della sua politica di fronte popolare, che mise fine alle lotte antirazziste nell’intento di sostenere gli alleati durante la seconda guerra mondiale. Con l’esplosione delle lotte di massa negli anni ’30, i lavoratori bianchi e neri si riunirono temporaneamente nel Congresso delle organizzazioni industriali (CIO). Ma, con l’eccezione degli IWW, vari tipi di razzismo hanno attraversato tutte queste lotte. In molti modi, la lotta di classe tra i lavoratori bianchi ha assunto la forma di anti-blackness, un fatto che è culminato con l’espressione “You Ain’t White” (“Tu non sei bianco”), con cui i lavoratori neri chiamano il sindacato United Auto Workers (UAW).
Quando il movimento per i diritti civili e per il potere nero è esploso negli anni ’60, i lavoratori bianchi sono restati in gran parte assenti dalle ribellioni urbane. Sebbene la Rainbow Coalition di Fred Hampton abbia formato alleanze con proletari bianchi, nel complesso questo sforzo non si è generalizzato. Il proletariato nero, non potendo trovare un complice nel proletariato bianco, è stato costretto a guardare all’esterno, alle lotte di liberazione nazionale nel Terzo Mondo.
Cosa può dirci questa storia di utile per il momento presente? Una delle dinamiche che rivela è che i destini dei lavoratori bianchi e dei lavoratori neri sono legati tra loro. L’assunto popolare è che il BIPOC abbia avuto una profonda storia di solidarietà negli Stati Uniti. Mentre è vero che le persone di colore non nere e non indigene non sono state coinvolte nell’omicidio di massa dei neri e degli indigeni nella stessa misura dei bianchi, questo fatto da solo non garantisce che la solidarietà sia una realtà politica de facto. Non c’è nessuna unità automatica tra le sezioni razziali che compongono il proletariato statunitense. Tuttavia, se c’è un gruppo che ha combattuto ed è morto insieme ai neri in questo paese, quello sono i bianchi. Nonostante tutto il loro razzismo e la loro anti-blackness, nessun altro popolo ha una storia più comune di lotta con i neri americani.
Il ritorno del proletariato bianco
Seguendo la guida del proletariato nero nella rivolta di George Floyd, il proletariato bianco è tornato di nuovo potentemente sulla scena della storia. Mentre il proletariato bianco in gran parte non ha partecipato alle ribellioni urbane nere degli anni ’60, oggi c’è una nuova generazione di millennial bianchi e proletari della Generazione Z che combatte e muore insieme ai proletari neri nelle strade. Ci sono anche alcuni elementi, benché un po’ traballanti, che dimostrano che i bianchi formavano la maggioranza nelle ribellioni di Atlanta, Minneapolis, Los Angeles e New York City. Cosa ce ne facciamo di questo? Come ci rapportiamo ai proletari bianchi in queste lotte? Qual è il loro posto nel movimento? Si può dare voce alle forme di oppressione che loro devono affrontare? O questo porta inevitabilmente alla supremazia bianca (nel movimento)?
Prendendo spunto da C.L.R. James, Noel Ignatiev ha messo in guardia contro i pericoli di cercare di conquistare i lavoratori bianchi a scapito delle richieste di liberazione dei neri. La critica del bianco che Noel delinea nel suo articolo del 1972, Black Worker, White Worker, sembra svolgersi oggi nel più ampio movimento BLM. Senza approvare ogni aspetto del programma BLM, chiunque può vedere che è più radicale di quello di Bernie Sanders o dei Democratic Socialists of America (DSA). In termini di politica di massa, quello di BLM è il programma più radicale che sia mai stato formulato in questo paese da generazioni. Sarebbe un errore catastrofico annacquare BLM per conquistare più bianchi.
Allo stesso tempo, gran parte dell’ossatura del BLM rimane intrappolata nel passato. Il proletariato con cui lavorava Ignatiev è diverso da quello che esiste oggi. Abbiamo visto un inasprirsi della divisione di classe tra il proletariato e la borghesia, una divisione che include anche quella tra il proletariato nero e la borghesia nera. Anche il proletariato bianco ha sperimentato questo processo di immiserimento di classe. Negli anni ’60 stava cavalcando il boom economico del secondo dopoguerra. Ma l’attuale proletariato bianco ha subito decenni di deindustrializzazione, austerità, crisi degli oppioidi, crisi del 2007/2008 e ora la pandemia. Come è dimostrato dalle recenti ribellioni, non si può più contare sul colore bianco come collante per tenere assieme tutti i bianchi. Questo fatto deve ancora essere integrato in una strategia rivoluzionaria. Mentre Ignatiev considerava un orientamento verso i lavoratori bianchi come la premessa di una de-radicalizzazione della lotta e del riformismo, il momento attuale potrebbe mostrare una dinamica diversa, in cui l’unico modo per fare appello a più lavoratori bianchi è diventare più radicali, più rivoluzionari.
Per la maggior parte, tuttavia, il proletariato bianco e il proletariato nero rimangono profondamente divisi. Il fatto che un numero considerevole di lavoratori bianchi stia combattendo sotto la bandiera di Black Lives Matter è uno sviluppo importante, ma molti ostacoli si frappongono ancora a un’alleanza rivoluzionaria. Finché il proletariato nero è convinto che il proletariato bianco non è disposto a combattere il razzismo fino alla fine, l’orizzonte e le possibilità di lotta in comune rimarranno limitati. Il proletariato bianco ha molto da dimostrare su questo fronte.
Se i proletari bianchi e neri non sono in grado di formare un’alleanza rivoluzionaria, prima o poi il proletariato nero dovrà smettere di combattere o, cosa altrettanto tragica, stringere alleanze con altre classi: la classe media nera, la classe media bianca, o, addirittura, la borghesia bianca. Questo sta già accadendo all’interno delle ONG e del Partito Democratico. Il proletariato bianco, a sua volta, continuerà a mantenere le proprie alleanze con la società borghese, bloccando ulteriormente lo sviluppo di una lotta di classe rivoluzionaria. In questo modo, i destini del proletariato bianco e nero sono sigillati insieme dal cappio del capitalismo razziale. Questo è il paradosso della liberazione dei neri negli Stati Uniti.
I razzisti bianchi
Il ritorno sulla scena del proletariato bianco ha portato con sé anche quello dei razzisti bianchi. Questo non dovrebbe sorprendere. Proprio come la sollevazione multirazziale guidata dai neri ha sperimentato l’opposizione di una contro-insurrezione guidata dai neri, così la comparsa di bianchi “traditori della loro razza” è stata accompagnata da quella dei bianchi razzisti. Mentre le ribellioni continuano a divampare, un numero crescente di vigilantes bianchi si fa avanti al fine di difendere con violenza la proprietà privata capitalista, provocando un incremento del numero dei morti tra le fila dei militanti antirazzisti.
Da un lato, questo, è chiaro, rende necessaria l’autodifesa armata; tuttavia rimane il problema di più ampio respiro: qual è la nostra strategia globale?
Nelle fila della sinistra della classe media larga parte di ciò che viene fatto passare come antirazzismo si fonda sulla convinzione quasi religiosa che i bianchi non possano cambiare. Come già abbiamo detto, ci sono delle legittime ragioni per avallare una tale convinzione, ma questo fatto crea dei problemi etici e politici di non poco conto ad una strategia per la rivoluzione. È chiaro che delle ampie porzioni del proletariato bianco sono razziste, ed è necessario prepararsi allo scontro con esse. Ma se il razzismo non è qualcosa di innato, naturale e permanente – come sostengono i fascisti –, allora ciò significa che anche questi stessi razzisti possono cambiare.
Sebbene possa sembrare che stiamo sostenendo la nonviolenza, sottovalutando il fenomeno del razzismo o appellandoci all’unità della classe proletaria sulla base di sue qualità organiche, nulla è più lontano dalla verità. La violenza nei confronti dei razzisti è inevitabile. Ma di razzisti ce n’è un numero sufficientemente alto – per di più dotato di una cospicua quantità di armi e di un considerevole supporto da parte del governo – per cui non possiamo pensare di sconfiggerli sul piano meramente militare. Affrontarli sulle strade è importante, ma sul lungo periodo è altresì necessario tentare di convincere una parte di loro che la loro fede nella causa dei bianchi non fa altro che sottometterli alla borghesia. Si tratta di un processo lento, arduo, perfino pericoloso; ma può essere fatto. Ad esempio Daryle Lamont Jenkins, un militante antifascista di One People’s Project, ha convinto svariati nazionalisti bianchi ad abbandonare le organizzazioni razziste di cui erano parte, e ha facilitato il processo attraverso il quale essi sono diventati militanti antirazzisti. Molti non vorranno – come dar loro torto? – svolgere questo tipo di lavoro: si tratta di un’impresa che non è da tutti. Ma resta nondimeno un’impresa importante. E non sarà certo portata a compimento da qualche seminario “impegnato” organizzato da una ONG, o da qualche rivista marxista; questo lavoro si potrà portare a termine solo attraverso le esperienze politiche conseguite nelle lotte di massa e nel confronto con altri proletari.
I bianchi dell’estrema sinistra
Questo porta in luce un problema di lunga data all’interno della sinistra rivoluzionaria statunitense. Solitamente, la sinistra rivoluzionaria riflette il mondo segregato del capitalismo razziale. Sebbene la estrema sinistra si sia giustamente schierata dalla parte di coloro che mettevano in atto le sommosse – e si trovi in sintonia con il proletariato nero nei momenti più alti della lotta –, nei momenti di quiete essa ritorna al suo stile di vita segregato. Il paradosso permane: i momenti più alti dello scontro sociale rivelano la vera relazione tra le forze rivoluzionarie, ma durante la gran parte della nostra vita quotidiana tutte le malattie del capitalismo razziale continuano a plasmare le nostre relazioni e la nostra comprensione delle suddette forze. C’è da aspettarselo; questo, nella società, è la norma; ma pone una seria sfida allo sviluppo di un movimento rivoluzionario.
A causa della sua separazione dai rivoluzionari neri e IPOC, l’estrema sinistra sta lottando per contrastare la contro-insurrezione che, in ambito politico, sta imperversando nel paese. L’estrema sinistra bianca perlopiù rimane silenziosa nella maggior parte delle proteste, che sono dominate dai riformisti. Nel momento degli scontri essa fa quel che deve fare, ma a livello politico tutti i successi sono incamerati dall’attività controrivoluzionaria degli attivisti delle classi medie, che strumentalizzano gli episodi di violenza in funzione di una riorganizzazione del capitalismo. Nello stesso tempo i rivoluzionari si mostrano incapaci di avere un qualsiasi impatto politico.
Questa divisione ha i suoi costi. I gruppi di bianchi “traditori della loro razza” non possono intervenire in maniera significativa senza essere accusati di essere degli agitatori infiltrati, di mettere in pericolo le persone, di parlare quando non è il loro turno, ecc., una dinamica che ha marginalizzato una considerevole porzione del milieu rivoluzionario e ha l’effetto di trasformare i rivoluzionari in nulla più che soldatini delle ONG. Sino a quando i compagni del BIPOC – e nello specifico i compagni neri – non saranno capaci di sfidare le ONG e le classi medie BIPOC in modo più ampio, è molto difficile immaginare come i rivoluzionari bianchi possano riuscire ad evitare questi tranelli.
Il mostro
L’alleanza insurrezionale che si è formata attraverso gli scontri e le sollevazioni è irriconoscibile, spaventosa, scandalosa, mostruosa. Essa rovescia le nozioni – tanto quelle storiche quanto quelle contemporanee – di solidarietà, politica e organizzazione. Essa toglie alla borghesia e alla classe media il loro ruolo di controllo e la loro leadership (sulla società). La sinistra non lo comprende, ed è abbastanza chiaro che percepisce tutto ciò come una minaccia. La sinistra è ormai così aliena alla vita, alle forme di coscienza e alla cultura proletarie che nel momento in cui il proletariato finalmente assume un ruolo guida all’interno del paese, questo le appare come un abominio da limitare e disciplinare.
Questo è accaduto molte volte nel corso della storia. I bolscevichi – con il soffocamento della rivolta di Kronštadt e della Machnovščina – ne hanno fornito i più famosi esempi. Fanon e C.L.R. James hanno evidenziato le medesime tendenze controrivoluzionarie in seno alle borghesie nazionali del Terzo Mondo. Si trattasse della rivoluzione haitiana, della guerra civile americana, della rivoluzione messicana o di altri casi ancora – ogni apparizione del “mostro proletario” è stata grottesca e terrificante, per il fatto che minava le fondamenta della società.
Il ritorno degli agitatori esterni
La classe media e la borghesia, sinora convinte di avere il controllo totale sul proletariato, non sono in grado di comprendere che cosa stia succedendo. Non riescono a capire la ragione per cui le masse si rivoltano contro la società. Tali classi sostengono che dietro alle rivolte c’è l’azione di agitatori esterni bianchi. Ad ogni modo, quelli di noi che sono sul campo conoscono bene la verità: sono stati i proletari neri a dare il via alle tattiche più insurrezionali. Nondimeno il mito degli agitatori esterni persiste, ed è un mito potente, costruito ad arte al fine di nascondere il carattere rivoluzionario delle rivolte. Al fine di comprendere l’influenza che questo mito esercita, è necessario analizzarlo in maniera più precisa.
La narrazione relativa agli agitatori bianchi esterni al movimento ha iniziato a prendere forma durante il periodo dello schiavismo dei neri. Il vecchio adagio razzista sostiene che gli schiavi erano contenti della loro situazione sino all’arrivo degli abolizionisti dagli stati del Nord, i quali li incitarono alla rivolta. Poi, in seguito all’abolizione della schiavitù, si racconta che siano stati i comunisti degli stati del Nord a disturbare ancora una volta la pace, instillando nelle menti e nei cuori dei neri la folle idea dell’uguaglianza. Al giorno d’oggi gli agitatori bianchi sembrano essere tornati in azione a Minneapolis, Detroit, Richmond e altrove. Secondo questa narrazione sono solamente i bianchi che danno i tribunali alle fiamme, attaccano i poliziotti e saccheggiano i negozi che vendono beni di lusso. Seguendo la strada spianata dalla middle class nera, i ceti medi, le ONG e i democratici di tutte le fogge rimettono in circolazione lo stesso argomento tanto caro agli schiavisti e ai segregazionisti del passato, trovando consolazione nella loro illusione che sono gli agitatori bianchi il vero motore attivo che permette l’incedere della storia.
Esiste tuttavia una corrente di agitatori esterni che deve essere presa in seria considerazione, quella degli agitatori bianchi razzisti. I ceti medi hanno basato le proprie critiche proprio su questo punto, sostenendo che sono i razzisti bianchi ad incendiare gli edifici, a distruggere le proprietà commerciali appartenenti ai neri e a spingere il paese sull’orlo di una nuova guerra civile. È senza dubbio possibile che una piccola frangia di bianchi si sia servita degli scontri al fine di prendere parte alla guerriglia urbana, ma questo fatto da solo non è sufficiente a spiegare cosa sta accadendo. Non sono folle di bianchi razzisti quelle che attaccano la polizia e la proprietà capitalistica, ma un proletariato multirazziale guidato dal proletariato nero.
Minneapolis, Seattle, Portland, Kenosha
In un articolo comparso sul Washington Post, E.D. Mondaine, membro della sezione di Portland della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) si è servito della narrativa degli “agitatori esterni bianchi” per spiegare cosa sta succedendo a Portland. Egli ha definito la ribellione di Portland uno “spettacolo bianco”. La sua critica ha preso a bersaglio la Naked Athena [è la prostituta che, completamente nuda e con la sola maschera antigas, siede in strada davanti alle truppe federali in assetto anti-sommossa – la sua foto è diventata virale], la Wall of Moms [il muro delle mamme] e l’assedio all’Edith Green – Wendell Wyatt Federal Building. Mondaine sostiene che, invece dei disordini, servirebbe la socializzazione della causa di Black Lives Matter nelle assemblee, nelle scuole, nei consigli cittadini, nelle aule di “giustizia”, e nelle “stanze dei bottoni di un governo ipocrita”. Si tratta di una chiara tendenza anti-insurrezionale che non può che condurre alla morte del movimento.
La questione che ha perseguitato il movimento per la liberazione dei neri è quella del proletariato bianco: si potrà unire alla lotta rivoluzionaria, o sarà invece un difensore della società classista? A Portland i militanti bianchi combattono contro lo Stato, sia quello locale che quello federale. I militanti neri se ne stanno accorgendo, e tengono d’occhio la situazione per comprendere se le intenzioni dei bianchi sono serie. La questione storica concernente la rivoluzione negli Stati Uniti è sempre stata la seguente: i proletari bianchi combatteranno fianco a fianco con quelli neri? Portland, Seattle, Minneapolis, Kenosha stanno dando a questa domanda una risposta affermativa.
Città la cui maggioranza degli abitanti è bianca hanno sino ad ora vissuto le ribellioni più radicali dell’ondata ora in corso. Come spiegarselo? La risposta è che in queste città la classe media nera, le ONG nere e i gruppi neri del Partito democratico sono più deboli di quelli di città come New York, Atlanta, Chicago, Philadelphia o Baltimora. A Minneapolis, Seattle, Portland e Kenosha la contro-insurrezione nera è stata abbastanza debole da fare di queste città le punte più avanzate del movimento.
Il crogiuolo rivoluzionario del proletariato bianco
Anche nel corso delle presenti sollevazioni, la grama realtà è che i “traditori della razza bianca” rappresentano una minoranza del proletariato bianco. Nella maggioranza dei casi i proletari bianchi non sono convinti da ciò che hanno visto. Essi sono parte di una classe ostinata, che deve essere trascinata (dagli avvenimenti) ad apprendere come stanno realmente le cose. Questa non è una sanzione, ma il semplice riconoscimento di una realtà storica.
Come classe, il proletariato bianco è piuttosto lento nel comprendere, e di certo non sarà in grado di identificare i propri autentici interessi attraverso il sistema educativo e i mass media. E neppure attraverso l’azione di organizzazioni di attivisti, i giornali, i quotidiani, le conferenze, i gruppi di studio, etc., marxisti o anarchici. La realtà è che solo attraverso l’amara esperienza di un inasprimento della crisi e delle conseguenti lotte il proletariato bianco riuscirà a diventare rivoluzionario.
Noel Ignatiev aveva ragione nel sostenere che l’”essere bianchi” è una categoria da eliminare, e che saranno necessari milioni di “traditori della razza bianca” perché questa operazione sia coronata da successo. Ma l’unico modo per raggiungere questo obiettivo è attraverso le lezioni della crisi. L’intera strategia di John Brown fu quella di scatenare una guerra civile, in modo da spingere l’intera nazione verso una guerra di liberazione. Se ci trovassimo oggi negli anni ‘50 dell’Ottocento, quanti di noi sosterrebbero la strategia dell’escalation che Brown mise in atto nel corso del Bloody Kansas? [tra il 1854 e il 1861 ci furono in Kansas una serie di scontri a fuoco tra i fautori dell’abolizione della schiavitù e i difensori della schiavitù] Quanti di noi sosterrebbero il raid che Brown e Harriet Trubman pianificarono su Harper’s Ferry? [il riferimento è all’assalto all’arsenale della cittadina di Harper’s Ferry nella West Virginia avvenuto nel 1859, con l’obiettivo di dare il via ad una rivolta armata degli schiavi]
Dal punto di vista storico il proletariato bianco si è reso conto di come le cose stessero solo dopo esservi stato trascinato dalle circostanze attraverso il fango e il sangue: la guerra civile lo spinse a combattere la schiavitù; la Grande Depressione ad unirsi ai proletari neri nel Congress of Industrial Federations; la seconda guerra mondiale a combattere i fascismi in Europa; la guerra nel Vietnam a imparare le crudeli lezioni dell’imperialismo americano. Il percorso è sempre lo stesso: il proletariato bianco, se lasciato da solo, non è in grado di risolvere gli enigmi della società americana. Solo la crisi lo educa.
È possibile, certo, che da una tale guerra un’ampia sezione del proletariato bianco finisca per trarre le conclusioni più controrivoluzionarie e razziste, ma non si danno altre possibilità: la crisi, la lotta e la polarizzazione sono inevitabili. I rivoluzionari devono comprendere che le cose stanno realmente così e agire di conseguenza.
Tesi sul proletariato bianco
- I bianchi, come tutte le persone, sono divisi da politica e condizione di classe. Queste divisioni sono state rese evidenti dalle recenti sollevazioni, che hanno mostrato come ci siano dei bianchi che vogliono andare fino in fondo e altri che vogliono difendere con ogni mezzo il capitalismo e lo stato.
- Abbiamo bisogno di una strategia rivoluzionaria per i proletari bianchi non nonostante il loro razzismo, ma proprio a causa di esso. L’arruolamento del proletariato bianco nelle fila dell’alleanza suprematista è stata una tattica fondamentale del capitalismo americano, per la semplice ragione che i lavoratori bianchi sono da sempre il maggiore segmento della popolazione nel paese. Il successo della rivoluzione proletaria necessita che tale legame sia spezzato.
- Il proletariato bianco è dotato di un potenziale rivoluzionario, ma tale potenziale è minato dall’influenza del razzismo e dei sentimenti contro i neri. Questa contraddizione si manifesta nella forma di una guerra civile all’interno del proletariato bianco – caratterizzata da un lato da sentimenti di solidarietà verso il resto del proletariato, dall’altro dal proprio essere bianchi.
- Il cosiddetto “agitatore esterno bianco” è il nome di quella creatura che spezza l’incantesimo della supposta unità tra civiltà, etichetta e fedeltà bianche e il complesso stato-capitale. Tale figura rivela l’esistenza di persone bianche che non sono interessate al proprio essere bianche.
- Quanti più nuovi “traditori della razza bianca” verranno fuori, tanto più saranno perseguitati e uccisi. In questo senso, la questione dell’ordine pubblico diventa non solo quella di disciplinare i proletari neri e bruni, ma anche i traditori bianchi. Questo è il destino di tutti i proletari che costituiscono un pericolo per il mantenimento dell’ordine razziale.
- Il proletariato bianco non è congelato, immodificabile: esso può cambiare, può evolversi, rompendo con la propria storia di colonialismo, razzismo e imperialismo. È necessario liberarsi da ogni illusione romantica per rendersene conto. Sono le persone in carne ed ossa a fare le rivoluzioni, non i santi o gli angeli.
- Il momento storico che più getta luce sul proletariato bianco di oggi è l’epoca della guerra civile. È quella la storia che ci dà potenti elementi sulla direzione di marcia di ciò che verrà. La guerra civile e la ricostruzione sono le questioni rimaste incompiute di questo paese.
- Solo la crisi, la guerra civile e la rivoluzione possono spezzare l’alleanza tra il proletariato bianco e il capitalismo.
Conclusioni
[Le mappe della primavera sono sempre da rifare, in forme non osate.]
—Sylvia Wynter
Il proletariato nero ha dato il via alle rivolte, ma non è in grado di sconfiggere da solo il capitalismo. In questo scritto, abbiamo analizzato in che senso il proletariato bianco è un pezzo del puzzle. Un ulteriore pezzo, che non è stato per il momento preso in considerazione, è il proletariato latino-americano. Un altro è quello del proletariato indigeno. Uno ulteriore è il proletariato internazionale. Sono numerosi i pezzi da cui è costituito il puzzle della strategia rivoluzionaria. Il modo in cui essi si incastreranno tra loro è divenuto manifesto in seguito all’esperienza delle sollevazioni del 2020. Nel momento in cui queste righe sono state scritte, gli scontri continuavano a susseguirsi.
Il capitalismo ha continuato a erodere i salari dei bianchi da decenni, ormai. Ne è derivato che un maggior numero di bianchi si è unito alla lotta contro il capitalismo razziale. Ma non esiste una garanzia su quanto potrà accadere con il proletariato bianco. Sebbene al suo interno si possano individuare delle correnti rivoluzionarie, la sua storia si fonda sul razzismo, e ha molto lavoro da fare per convincere gli altri lavoratori che è impegnato nella rivoluzione. Ciò richiede un impegno che mai si è visto prima d’ora. Esistono un sacco di spiegazioni superficiali e astratte su come l’idea di essere bianchi possa essere superata attraverso la consapevolezza della colpa, il sacrificio personale, la carità e i comportamenti interpersonali, ma la strada più chiara da percorrere è quella di unirsi allo scontro di classe, combattere la polizia e incendiarne auto e commissariati, dare alle fiamme tribunali ed edifici dei dipartimenti correzionali, e dedicarsi anima e corpo alla lotta.
La sollevazione ha costretto tutti a schierarsi, profilando all’orizzonte lo spettro di una guerra civile. Come possiamo trasformare una tale guerra civile in una guerra rivoluzionaria che abolisce la “bianchezza” (l’essere bianchi), il colonialismo, l’imperialismo, il capitalismo e il patriarcato? Perché ciò avvenga, si deve sviluppare un’alleanza rivoluzionaria tra tutte le componenti del proletariato, capace di opporsi alle classi medie e alla borghesia di tutte le identità. La nascita di quest’alleanza proletaria si fonderà su una solidarietà così differente da ciò che si intende di solito per solidarietà, che sembrerà ai più, sinistra compresa, un mostro. Tutto ciò richiede una strategia, un’organizzazione, una tattica e una politica per le quali la maggior parte della sinistra statunitense è del tutto impreparata. Ma il fatto che le cose stiano in questo modo, non implica affatto che debbano restare così.
Alcuni guarderanno queste ribellioni e continueranno a pensare esattamente ciò che pensavano prima. Costoro non hanno nulla da imparare. Scontri, saccheggi e incendi hanno ottenuto in un’estate più risultati di decenni di attivismo. Questa estate ha trasformato un’intera generazione. Non sono le ONG, la sinistra o anche la sinistra rivoluzionaria ad averlo fatto. Sono migliaia di giovani coraggiosi che agiscono di propria iniziativa, seguendo ciò che percepiscono sensato fare, ciò che pare loro una risposta non solo logica o d’impatto, ma che sia a tutti gli effetti degna a quello che appare come un massacro di stato. È a loro e ai nostri compagni caduti che noi rendiamo omaggio.
Se una prassi rivoluzionaria emergerà, essa sorgerà forgiata dalle fiamme di questa ribellione. Ora – con una nuova recessione, masse di proletari disoccupati, decine di migliaia di persone sull’orlo dello sfratto e una pandemia che sta peggiorando – la crisi che ha dato il via alle proteste si sta ulteriormente radicando. Nonostante la spinta in senso riformistico e la pantomima delle elezioni, lo scontro continua.
Diamo il nostro benvenuto al mostro proletario.
4 settembre 2020